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Viaggi del tempo immobile – Roberto Vecchioni

Viaggi del tempo immobile - Roberto Vecchioni


Viaggi del tempo immobile è il libro di esordio di Roberto Vecchioni. Un libro di racconti, dieci, scritti con un linguaggio veloce e denso, con un ritmo da ballata, uniti da un unico filo conduttore: il tempo. Il tempo che passa, ritorna, toglie e rende, inganna e rivela, e che comunque non è altro che illusione, mera convenzione nelle parole di Teliqalipukt, cantastorie immortale. Un diario nel tempo della memoria dove gli archetipi hanno una loro valenza onirica e la frammentarietà del contemporaneo è solo esistenza e non storia.

 
Una folla di bambini schiamazzanti si raccoglie in cerchio intorno a un cantastorie. I suoi racconti catturano subito: sono belli e strani, non sono favole per bambini, parlano di persone importanti, da Alessandro Magno a Ferdinand De Saussure, nomi del tutto nuovi per loro. Il fatto è che quei bambini sono dei piccoli immortali: non conoscono ancora il mondo degli uomini che presto abiteranno, e attraverso quei racconti vengono iniziati ai sentimenti, alle paure, agli amori dei mortali. Il loro maestro, il cantastorie, è un immortale atipico: tutt’altro che imperturbabile, predisposto invece alla malinconia, alle passioni, e soprattutto irrimediabilmente “drogato dalla terra”. Nelle sue varie incarnazioni terrene ha vissuto accanto a personaggi memorabili e può così raccontare le loro vicende in una prospettiva diversa, in qualità di testimone che è venuto a conoscenza di particolari inediti sfuggiti alle maglie della Storia. Si tratta di vicende impossibili se misurate col metro degli uomini, ma attraversate forse da una verità più intima: per Alessandro Magno il tempo viaggia al contrario costringendolo a rivivere a rovescio la vita, a sentire sempre la stessa straordinaria noia di vivere; Ferdinand De Saussure risolve un intricato caso di omicidio con l’ausilio della linguistica; un uomo che dice di chiamarsi Sancho Panza uccide Cervantes accusandolo di essere un ladro di storie; Robert Scott va con ebbrezza incontro alla morte al Polo Sud e nel suo diario qualcuno ha scritto per lui le frasi che più sembrano sue; Carl Barks, l’inventore di Paperon de’ Paperoni, fa una dichiarazione d’amore tardiva e dolcissima usando il solo linguaggio che conosce: quello dei fumetti; Ulisse, dopo aver combattuto una guerra epica e immensa, esita a piegarsi all’ordinaria felicità che ha a portata di mano…


– Sapete cos’è una partenza?  
– Una partenza è come questo fiore intatto. Togliete lentamente un petalo alla volta, fino all’ultimo, e rimane solo il centro del fiore.
– E cos’è il centro del fiore?
– È il ritorno. 
– Ma perché si parte, da dove si parte?

– Quando sarete uomini, partirete sempre. Partirete a piedi, a cavallo, partirete sul mare, nell’aria. Partirete perché vi aspetta qualcosa o perché voi aspettate qualcosa, e tanti nomi avrà la partenza: da attesa a desiderio, a bisogno, a tradimento, a distacco, a paura, a coraggio, perché infinite come questi petali sono le partenze, uno solo è il ritorno. 


Prologo/cap. I

Teliqualipukt era consapevole di non essere un gran bell’esempio di immortale. L’imperturbabilità, tanto per dirne una: quella gli mancava completamente.
Non che non ce la mettesse tutta, ma proprio non ci riusciva ad assumere quell’aria pacifica e un po’ tonta degli altri immortali. Si arrabbiava, sbuffava, rideva sguaiatamente e soprattutto non era capace di cancellare i ricordi. Soffriva di malinconie, e quel ch’era peggio, piangeva.
Era un’immortale relativamente giovane, ma aveva vissuto più vite, conosceva più posti, più storie, più uomini di tutti. Questo perché non resisteva più di tanto lì ad adorare, adorarsi e godere eterna felicità: a scadenze ormai fisse gli tornava la voglia di vivere di essere uomo, non importa dove.
Ed era stato mille uomini, in mille tempi diversi, a cavallo di euforie e di noie; fu piccolo artigiano e astuto consigliere, pallido guerriero e sconosciuto inventore, politico, sguattero, trovarobe e poeta, ma sempre e comunque in qualsiasi vita, in qualsiasi corpo, incazzato con gli ipocriti e indifeso, sperduto sognatore. Raramente fu un uomo importante: più spesso visse vicino a qualcuno che valeva la pena di ricordare, di raccontare.
Gli altri immortali non lo capivano, lo consideravano tutti un po’ tocco, ma innocuo. Si erano già fatti la loro bella trafila di esistenze e non ne potevano più: basta, zac, un taglio netto per meritarsi l’infinito riposo. Lui no. E più andava avanti nei secoli, più gli crescevano pericolosamente le emozioni. Pareva drogato dalla Terra. E non si poteva. Non si poteva, era vietato e oltretutto sconsigliabile, tornare a vivere così spesso e a intervalli sempre più ravvicinati.
Allora trovarono una soluzione. Visto che amava tanto gli uomini e tanti uomini non riusciva proprio a dimenticarli, si sarebbe preso la briga di raccontarli ai piccoli immortali, che di vite non ne avevano ancora vissute ma che presto avrebbero cominciato a farlo. Ci pensasse lui che sapeva tutto e tutto aveva visto, a metterli sull’avviso, a instradarli, a dar loro illuminati consigli. […]
– Sapete cos’è una partenza? – replicò Teliqualipukt prendendo un enorme fiore e accarezzandogli i petali. – Una partenza è come questo fiore intatto. Togliete lentamente un petalo alla volta, fino all’ultimo, e rimane solo il centro del fiore.
– E cos’è il centro del fiore? – chiese Puna.
– È il ritorno.
– Ma perché si parte, da dove si parte? – domandò Misha.
– Quando sarete uomini, partirete sempre. Partirete a piedi, a cavallo, partirete sul mare, nell’aria. Partirete perché vi aspetta qualcosa o perché voi aspettate qualcosa, e tanti nomi avrà la partenza: da attesa a desiderio, a bisogno, a tradimento, a distacco, a paura, a coraggio, perché infinite come questi petali sono le partenze, uno solo è il ritorno.
– Io non voglio partire! – piagnucolò Vesca.
– Ascoltami, Vesca. Tu non devi partire ora, piccolo immortale. Né partirai più “dopo“, perché gli immortali sanno già chi sono, hanno chiuso il giro delle partenze. Tu partirai da uomo, perché altro non può fare un uomo se non perdersi o trovarsi, o illudersi dell’una e dell’altra cosa. Non c’è scampo e non c’è libertà più grande negli umani. È un rincorrersi senza fine, perché mai, mai, la casa è l’ultima casa, il nemico è l’ultimo nemico, la vittoria è l’ultima vittoria.
– Ma… si sta male? – chiese Minbar.
– E la cosa più elettrizzante e più divina che io abbia mai provato. E l’ho provata mille volte. State a sentire.
Fece una pausa, quindi riprese: – È l’azzardo di non sapere; il fiume, il monte che ti sbarra la strada; la ragazza che ti prende per mano; il deserto, l’oceano che attraversi per vedere cosa c’è dall’altra parte; il sogno che rubi dal tuo sonno, il sogno che modelli, plasmi, fingi, che raccogli in pezzi; è l’istante prima che ha tutti gli istanti dopo ancora intatti, e, appena è, già fu ombra e tu gridi. Uscirne ed esser di nuovo alla luce, perché questo sono gli uomini, urlo e sole, e tutto il resto è niente. […]

I piccoli immortali rimasero in silenzio. Solo Minbar trovò la forza di formulare la domanda che tutti avevano in cuore: – Cosa significa esattamente “tempo”?
– Il tempo è una cosa degli uomini – disse Teliqalipukt
– Ma a cosa serve. Come funziona. perché c’è?
– Non significa niente, ma serve. Vedi, Minbar, gli uomini sono “binari”: hanno i1 bello e il brutto, il bianco e il nero, il dolore e la gioia, e non sanno viverli nello stesso presente perché non capirebbero più niente e non si capirebbero più tra loro. Il tempo serve a tenergli ben divise queste certezze, a far avvenire le cose una alla volta non tutte insieme, come capita a noi.
– Gli uomini non riescono a sentire contemporaneamente?
– Fuori di loro. Fuori di loro no. Hanno azioni elementari e il tempo gliene sottopone una alla volta. Ma dentro sì, dentro sono proprio come noi, dentro non hanno tempo, o almeno “quel tempo”.
– Ma questo non li confonde?
– No, Minbar, gli uomini hanno bisogno di esser certi che a una cosa segue l’altra, alla vita la morte: è per loro come una strada su cui camminare, si spaventano molto quando ciò non accade come ad esempio nei sogni, in agonia, sotto droghe: sparisce la strada, camminano su una palude, nell’aria… Eppure molti di loro preferiscono quest’altro tempo che hanno dentro, e che non corre diritto, ma si muove all’impazzata in circolo: i folli per esempio, e i bambini, gli artisti. Ha tempo ciò che li colpisce di più, il resto è niente.
– È migliore?
– È il loro tempo.

 I ritorni
Erano stati bei tempi, tempi sovrumani. Poco importa che ruolo ebbi io in quella guerra: fatto sta che la vidi. E quando si torna dall’aver visto una cosa simile, non si è visto e non si vedrà nient’altro. Non fu solo una guerra, fu la storia che si presenta e si nomina e ti mostra la parte del viso che vuol dire vita e l’altra parte che vuol dire morte, per sempre.
Nulla fu normale in quegli anni sotto Ilio: i rumori e i silenzi, le attese spasmodiche, gli assalti e le ritirate, gli scontri e i baci. Io invecchiai più in fretta delle meridiane, più rapidamente dei capelli e degli occhi.
Capii l’infinità del dolore e l’orlo della solitudine. Capii cos’erano gli dèi: immaginazione,desideri, proiezioni del proprio destino. Capii l’infamia e il coraggio e la morale della vergogna. E si può dire che amai, che provai la paura di perdere e non ritrovare più tutte le luci e le ombre di quel disastro.
E stavo ritornando, come tutti loro, come tutti gli altri da qualche parte più in là o più in qua del mare, più in là o più in qua del tempo. E’, il ritorno, sublime somma delle attese, ma anche evento che separa una fine e un principio e ha un duplice colore di sconfitta e rivincita, a seconda di quanti battiti sia ancora capace il cuore.

Le partenze
«Quando due si lasciano, non parte chi se ne va: parte chi resta. Chi se ne va era partito già molto tempo prima. All’apparenza è lei a prendere la nave, lei a muoversi: ma è un falso movimento, il suo; è come se fossi io a camminare all’indietro, senza accorgermene. Per lei non c’è partenza, è ferma nel suo nuovo amore – non cambia stato la sua anima, quieto, alla fonda, il desiderio. È chi resta, invece, il solo a partire, cambiare condizione, forma del vivere, giornate, veglie, sussulti. È chi resta a non ritrovarsi più in quel posto, in quella geografia conosciuta di carezze e pensieri, e deve spezzare, andarsene, cambiar nome all’amore che non riconosce. È di chi resta l’unica partenza».
Questo, non altro pensiero, si muoveva a Saffo nel petto, la notte in cui salutò Anattoria, l’achea, la bella e le intrecciò l’ultima ghirlanda perché ricordasse, anche con quell’uomo. Un uomo gliela portava via: un uomo e una nave. Da lì, da quella spiaggia di Mitilene, cento, mille ne aveva viste passare di navi, e tutte da guerra.
«Gli uomini vanno per mare perché sono come il mare, tempesta e passione, onda incerta, dubbiosa: incerta pure la meta, e mai l’ultima. Gli uomini sono quella rabbia senza fine di scoprire tutto, di insinuarsi ovunque, come il mare, al falso, dolce carezzar di spuma, quando il vento del cuore, a tratti, si placa; e del mare hanno l’inconsistenza, il lungo canto illusorio e la violenza di tamburo battuto, fino al sacrificio. E non hanno colore, come il mare. Perché il mare altro non è che il riflesso del cielo, è un cielo capovolto: e in questo riflesso attraversano al contrario la verità e la vita. E meno bastano a se stessi, più devono avere cose: ricchezze, imperi, schiavi, potere. Di nessun altro deve essere tutto ciò che non è loro: rompono, distruggono, annientano quello che non possono avere. E il cielo. Forse il cielo siamo noi. Noi non riflettiamo la luce, prendendo altrove colore, noi siamo colore. Non muoviamo burrasche livide e impercorribili: siamo brevi temporali o nere confessate agonie; ma di più, molto di più, tenero, sconfinato azzurro e canto di culla, di lavoro e poesia. Ma forse sto pensando così solo perché tu te ne vai. Penso così solo perché tu mi lasci».
E l’uomo era giovane, l’uomo era bello e l’avrebbe portata lontano, in Lidia, a Sardi, danzando la groppa di cavalli pezzati, ed era bella Anattoria, quella sera, alta nel lungo finissimo velo, struggente alle pieghe di chitone e doppia la faccia, che guarda ora il mare, ora i piedi di Saffo.
«Ti amo», disse all’improvviso Anattoria.
«Questo non avrà mai il tuo sposo: questo sapere dell’amore. Mi sento morire all’idea delle sue carezze sulla tua pelle e ancor più dei sorrisi, i tuoi, ai suoi ritorni. Non c’è musica, non c’è rosso tramonto che mi possa quietare, non c’è un verso, uno solo, che io possa riascoltare nella bellezza che aveva prima, quando lo confusi all’incerto leggerlo della tua bocca sulle mie labbra. Non c’è un dio che possa saettarmi o lavarmi d’acqua, non c’è Afrodite che possa ridarmi, inimitabile, quel tuo fuoco: ma questo so, che per quanto lui ti abbia, per quanto ti desideri, ti copra e frema; per quanto tu possa aspettare, conosciuto al battito, i rumori dei suoi passi e respirare nell’aria l’odore dell’assenza e dell’attesa, per quanto corra nelle vostre vene sangue veloce e si tramuti in grido nell’attimo più bello: tu non sei lui, e lui non è te. E invece io parlo ed è la tua voce, muovo le mani e sono le tue, tuo il mio sguardo, i tuoi pensieri crescono in me, e pure i sogni sono i sogni di Anattoria. E darei vita e morte perché non mi straziassi di questa presenza. Esserti e non averti: qui sta lo strazio, perché altro sarebbe averti, e mille volte solo averti. Averti, stringerti fino a farti male, come farebbe un soldato ubriaco, sordo agli strilli, poderoso all’assalto e fiume in piena. No, no, questo no. Era soffio tra noi e tenerezza. Ma sovrumano e così piccolo insieme è questo distacco: così in fondo alla terra, così a tutti sconosciuto, un punto qualunque di dolore. Quando un uomo perde un amore, perde solo qualcuno, qualcosa. A noi non è concesso: non te ne vai tu sola, ma il mondo che abitavamo insonni, come gli dèi. Non perdo Anattoria, perdo l’universo che eravamo. Staccatasi una parte, quel che resta dell’animo non sa vivere a sé: si sgretola, si disfa, è polvere».
E già d’altri rumori, altri suoni, voci, passi a danza, e già d’altre risate era piena la spiaggia: giungevan di corsa le compagne a piedi nudi, d’importuna felicità chiassose e unite in coro a festeggiar la sposa.
La luna ebbe un sussulto, sparì d’un tratto e tutto parve oscuro sogno all’alba, quando hai ancor più paura.
«Ti amo», sussurrò Saffo camminando all’indietro.

Roberto Vecchioni, Viaggi del tempo immobile – Edizione Einaudi

In copertina: Emilio Tadini, Vita di Voltaire: Voltaire a Femey, 1968