Dal mio punto di vista, l’impulso a raccontare una storia, a inventare o ad attingere alla realtà, è quasi un istinto a sé, l’istinto narrativo: per determinate persone – alcune delle quali finiscono poi per diventare scrittori – questo istinto è potente e primario come ogni altro. La grande fortuna sta nel fatto che esso trova nel mondo l’istinto parallelo: quello di ascoltare storie. Ha un che di toccante, questo bisogno di sentir narrare.
Ovviamente, fra le cose che trasformano una persona in uno scrittore menzionerei anche il desiderio di comprendere, attraverso la narrazione, il mondo e l’uomo, in tutti i suoi aspetti, contraddizioni e illusioni; e vi si può aggiungere anche l’aspirazione che lo scrittore nutre di conoscere se stesso, di dare voce a tutte le correnti che passano impetuose dentro di lui. Chi non ha in sé questo desiderio, questo impulso primario, è difficile che sia capace – sempre che lo voglia – di sostenere quell’immenso sforzo spirituale che lo scrivere comporta.
Un ulteriore movente dello scrivere è l’aspirazione ad abbattere quella parete divisoria, per lo più invisibile, che separa me dal prossimo (chiunque egli sia), verso il quale provo un interesse fondamentale, profondo; l’aspirazione a espormi in tutto e per tutto, senza alcuna difesa, in quanto individuo e non soltanto scrittore, di fronte alla personalità e alla vita di un altro individuo, alla sua interiorità più segreta e autentica, primordiale.David Grossman
I suoi romanzi sono un viaggio all’esplorazione dell’intero cosmo che palpita vivo in ogni essere umano, un punto interrogativo sulla possibilità di far combaciare due universi distanti ma accomunati dalla stessa natura, di trasformare la monade in diade e, perché no, in triade e poi in famiglia, e infine in comunità.
Nato e cresciuto a Gerusalemme, David Grossman studia filosofia e teatro all’Università Ebraica di Gerusalemme, lavora per la radio nazionale e inizia a scrivere saggi e libri per bambini, oltre che romanzi. Impregnato della sua cultura e orgoglioso della sua appartenenza al popolo ebreo, si è più volte espresso in merito alla questione israelo-palestinese, pubblicando saggi e cronache di guerra, tra cui Il vento giallo, saggio sulle condizioni dei palestinesi di Gaza che ha sollevato diverse critiche in Israele.
Sostenitore della guerra israelo-libanese, rimane però profondamente segnato dalla scomparsa del suo secondogenito Uri, rimasto ucciso (2006) proprio in quel conflitto. L’incontro con la morte, circostanza destabilizzante e incontrastabile, ha squarciato quello che prima era soltanto uno spiraglio aperto sull’interiorità. Il bisogno di capire, di accettare l’inevitabile, di rassegnarsi all’impotenza e alla disfatta, fa esplodere un altro bisogno, quello di scrivere. Raccontare per comprendere, farsi una ragione, trovare un motivo per continuare a vivere. Ma soprattutto, non perdere la possibilità di conoscere l’altro. Prima che sia troppo tardi.
Nasce da questo afflato il suo ultimo romanzo, Cade fuori dal tempo (2011), un romanzo che “parla da sé piuttosto che di sé” – come l’ha definito l’autore stesso – e che traspone letterariamente l’esperienza del lutto subito, pur in assenza di espliciti cenni autobiografici, come pure per il precedente A un cerbiatto somiglia il mio amore (2009). Al pari di un subacqueo, David Grossman si immerge nel mondo sommerso e oscuro dei rapporti umani, ne scandaglia le profondità cercando di gettare luce negli anfratti più nascosti dell’animo umano, alla ricerca del segreto – se un segreto esiste davvero – che permette a due persone di mettersi in comunicazione reciproca e comprendersi in modo autentico. Per scoprire che siamo tutti equilibristi, sospesi sul filo sottilissimo delle parole, degli sguardi e dei gesti che inviano messaggi e trasmettono significati, nella speranza di trovare nell’altro un po’ di noi stessi.
Per riuscire a raggiungere l’altra sponda – l’incontro con l’altro – senza fraintendersi, è indispensabile proprio guardare in basso. Lasciarsi sedurre dal richiamo seducente e temibile dell’abissso dell’interiorità altrui, senza per questo farsi inglobare in una simbiosi senza riconoscimento, ma tutelando anzi la propria individualità come garanzia dell’alterità e di un rispecchiamento possibile, seppure difficile.
David Grossman è dunque narratore di incontri. Con l’altro e con se stesso. Il suo stile semplice e avvincente affonda l’amo nelle asperità più cupe, proietta il lettore in una dimensione intimista in cui è il confronto tra umanità diverse a venire in primo piano, lasciando sullo sfondo una realtà che pure non perde consistenza, ma resta cornice indispensabile all’interno della quale si dipanano le vicende dei protagonisti. L’occhio rimane però puntato sull’interiorità: la sua scrittura va alla ricerca delle motivazioni, delle pulsioni primordiali, degli affetti e dei bisogni umani che spingono gli individui a entrare in contatto gli uni con gli altri.
L’unica chiave per aprire le porte dell’inferno altrui – e renderlo, se possibile, un po’ meno infernale – è proprio il dialogo. Auspicato, talvolta insperato, spesso difficile. Lo stesso dialogo pacifico a cui David Grossman ha spesso invitato ebrei e palestinesi. Uno strumento per espropriarsi, calarsi nei panni altrui e guardare il mondo da nuove prospettive. Insomma, per diventare un altro. E nessuno ci riesce bene quanto lui, a trasformarsi in altro, a immedesimarsi nei suoi personaggi. Che acquistano tridimensionalità, e un carattere di umanità aggiunta che, se da un lato può spaventare un lettore poco avvezzo all’introspezione, dall’altro apre scenari di inestimabile arricchimento personale.
Giuliana Gugliotti in: www.letteratu.it/