Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, è un romanzo principalmente umoristico, uscì per la prima volta nel 1963 ed è composto da venti novelle. In un primo momento la Einaudi lo pubblicò come libro per bambini, ma è un libro interessante anche per gli adulti. Il protagonista assoluto di tutte e venti le novelle è ovviamente Marcovaldo, il quale vive in una metropoli dove c’è solo smog, traffico, grattacieli e dove la natura è pressoché inesistente.
Questo scrittore inafferrabile l’ho sempre immaginato come un fauno dei boschi. La leggerezza non si è limitato a teorizzarla in un saggio immortale. L’ha praticata nelle sue opere. Anche in questa, che ha per protagonista il padre poetico di Fantozzi. Marcovaldo è un manovale che frequenta un lavoro frustrante, una moglie con cui parla soltanto di debiti, una vita e una città entrambe grigie. Ma esiste una fiamma interiore che lo purifica. Uno sguardo bucolico che lo porta ad appassionarsi ai funghi che crescono nell’aiuola alla fermata del tram. O a fantasticare la notte alla finestra del suo piccolo appartamento, osservando un cartellone pubblicitario luminoso che ogni venti secondi si spegne per mostrare a intermittenza la luna. Piccoli desideri, slanci goffi ma sempre dignitosi. Marcovaldo fa ridere e anche un po’ pena. Eppure ti lascia addosso una sensazione di fierezza.
Massimo Gramellini, da “Cuori allo specchio”
Funghi in città
II vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui s’accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno, che starnutano per pollini di fiori d’altre terre.
Un giorno, sulla striscia d’aiola d’un corso cittadino, capitò chissà donde una ventata di spore, e ci germinarono dei funghi. Nessuno se ne accorse tranne il manovale Marcovaldo che proprio lì prendeva ogni mattina il tram.
Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza.
Così un mattino, aspettando il tram che lo portava alla ditta Sbav dov’era uomo di fatica, notò qualcosa d’insolito presso la fermata, nella striscia di terra sterile e incrostata che segue l’alberatura del viale: in certi punti, al ceppo degli alberi, sembrava si gonfiassero bernoccoli che qua e là s’aprivano e lasciavano affiorare tondeggianti corpi sotterranei.
Si chinò a legarsi le scarpe e guardò meglio: erano funghi, veri funghi, che stavano spuntando proprio nel cuore della città! A Marcovaldo parve che il mondo grigio e misero che lo circondava diventasse tutt’a un tratto generoso di ricchezze nascoste, e che dalla vita ci si potesse ancora aspettare qualcosa, oltre la paga oraria del salario contrattuale, la contingenza, gli assegni familiari e il caropane.
Al lavoro fu distratto più del solito; pensava che mentre lui era lì a scaricare pacchi e casse, nel buio della terra i funghi silenziosi, lenti, conosciuti solo da lui, maturavano la polpa porosa, assimilavano succhi sotterranei, rompevano la crosta delle zolle. « Basterebbe una notte di pioggia, – si disse, – e già sarebbero da cogliere». E non vedeva l’ora di mettere a parte della scoperta sua moglie e i sei figlioli.
– Ecco quel che vi dico! – annunciò durante il magro desinare. – Entro la settimana mangeremo funghi! Una bella frittura! V’assicuro! – E ai bambini più piccoli, che non sapevano cosa i funghi fossero, spiegò con trasporto la bellezza delle loro molte specie, la delicatezza del loro sapore, e come si doveva cucinarli; e trascinò così nella discussione anche sua moglie Domitilla, che s’era mostrata fino a quel momento piuttosto incredula e distratta.
– E dove sono questi funghi? – domandarono i bambini. – Dicci dove crescono! –
A quella domanda l’entusiasmo di Marcovaldo fu frenato da un ragionamento sospettoso: “Ecco che io gli spiego il posto, loro vanno a cercarli con una delle solite bande di monelli, si sparge la voce nel quartiere, e i funghi finiscono nelle casseruole altrui!” Così, quella scoperta che subito gli aveva riempito il cuore d’amore universale, ora gli metteva la smania del possesso, lo circondava di timore geloso e diffidente.
– Il posto dei funghi lo so io e io solo, – disse ai figli, – e guai a voi se vi lasciate sfuggire una parola.
Il mattino dopo, Marcovaldo, avvicinandosi alla fermata del tram, era pieno d’apprensione. Si chinò sull’aiola e con sollievo vide i funghi un po’ cresciuti ma non molto, ancora nascosti quasi del tutto dalla terra.
Era così chinato, quando s’accorse d’aver qualcuno alle spalle. S’alzò di scatto e cercò di darsi un’aria indifferente. C’era uno spazzino che lo stava guardando, appoggiato alla sua scopa.
Questo spazzino, nella cui giurisdizione si trovavano i funghi, era un giovane occhialuto e spilungone. Si chiamava Amadigi, e a Marcovaldo era antipatico da tempo, forse per via di quegli occhiali che scrutavano l’asfalto delle strade in cerca di ogni traccia naturale da cancellare a colpi di scopa.
Era sabato; e Marcovaldo passò la mezza giornata libera girando con aria distratta nei pressi dell’aiola, tenendo d’occhio di lontano lo spazzino e i funghi, e facendo il conto di quanto tempo ci voleva a farli crescere.
La notte piovve: come i contadini dopo mesi di siccità si svegliano e balzano di gioia al rumore delle prime gocce, così Marcovaldo, unico in tutta la città, si levò a sedere nel letto, chiamò i familiari. “È la pioggia, è la pioggia”, e respirò l’odore di polvere bagnata e muffa fresca che veniva di fuori.
All’alba – era domenica -, coi bambini, con un cesto preso in prestito, corse subito all’aiola. I funghi c’erano, ritti sui loro gambi, coi cappucci alti sulla terra ancora zuppa d’acqua. – Evviva! – e si buttarono a raccoglierli.
– Babbo! guarda quel signore lì quanti ne ha presi! – disse Michelino, e il padre alzando il capo vide, in piedi accanto a loro, Amadigi anche lui con un cesto pieno di funghi sotto il braccio.
– Ah, li raccogliete anche voi? – fece lo spazzino. – Allora sono buoni da mangiare? Io ne ho presi un po’ ma non sapevo se fidarmi… Più in là nel corso ce n’è nati di più grossi ancora… Bene, adesso che lo so, avverto i miei parenti che sono là a discutere se conviene raccoglierli o lasciarli… – e s’allontanò di gran passo.
Marcovaldo restò senza parola: funghi ancora più grossi, di cui lui non s’era accorto, un raccolto mai sperato, che gli veniva portato via così, di sotto il naso. Restò un momento quasi impietrito dall’ira, dalla rabbia, poi – come talora avviene – il tracollo di quelle passioni individuali si trasformò in uno slancio generoso. A quell’ora, molta gente stava aspettando il tram, con l’ombrello appeso al braccio, perché il tempo restava umido e incerto. – Ehi, voialtri! Volete farvi un fritto di funghi questa sera? – gridò Marcovaldo alla gente assiepata alla fermata. – Sono cresciuti i funghi qui nel corso! Venite con me! Ce n’è per tutti! – e si mise alle calcagna di Amadigi, seguito da un codazzo di persone.
Trovarono ancora funghi per tutti e, in mancanza di cesti, li misero negli ombrelli aperti. Qualcuno disse: – Sarebbe bello fare un pranzo tutti insieme! – Invece ognuno prese i suoi funghi e andò a casa propria.
Ma si rividero presto, anzi la stessa sera, nella medesima corsia dell’ospedale, dopo la lavatura gastrica che li aveva tutti salvati dall’avvelenamento: non grave, perché la quantità di funghi mangiati da ciascuno era assai poca.
Marcovaldo e Amadigi avevano i letti vicini e si guardavano in cagnesco.
Italo Calvino – Marcovaldo