Un libro evergreen! Istruttivo e piacevole, “Diario di scuola” è un romanzo-saggio: ricordi autobiografici si mescolano a riflessioni sulla pedagogia, sull’istituzione scolastica e sul ruolo della famiglia. Pennac affronta il grande tema della scuola dal punto di vista degli “alunni difficili” che a causa di continui insuccessi scolastici sviluppano la consapevolezza di non essere all’altezza del compito.
Ma grazie alla fiducia e all’affetto di insegnanti appassionati riattivano quella sete di sapere che li anima.
La prima parte del libro aiuta a comprendere, la seconda a trovare delle soluzioni.
Memorabile la difesa dei ragazzi provenienti dai quartieri “a rischio”, su cui spesso si tende a generalizzare.
Il libro si chiude su una metafora bellissima a rappresentare come Pennac, e tanti come lui, interpretano il lavoro d’insegnante: una rondine stordita dal vetro contro cui ha sbattuto, che bisogna aiutare a volare di nuovo.
Una lettura fondamentale per chi ha dei figli a scuola e per chi insegna.
Il romanzo uscì in Francia nel 2007 e fu tradotto e pubblicato in Italia l’anno dopo. Il libro ha ottenuto il Premio Renaudot nel 2007 tra grandi polemiche, poiché non era tra i testi selezionati per concorrere.
Bisognerebbe inventare un tempo specifico per l’apprendimento. Il ‘presente d’incarnazione’, per esempio. Sono qui, in questa classe, e finalmente capisco! Ci siamo! Il mio cervello si propaga nel mio corpo: ‘si incarna’. […]
Forse è questo insegnare: farla finita con il pensiero magico, fare in modo che a ogni lezione scocchi l’ora del risveglio.
Estratto
Ma guardiamoci bene dal sottovalutare l’unica cosa sulla quale possiamo agire personalmente e che risale alla notte dei tempi pedagogici: la solitudine e il senso di vergogna del ragazzo che non capisce, perso in un mondo in cui gli altri capiscono.
Solo noi possiamo tirarlo fuori da quella prigione, formati o meno per farlo.
Gli insegnanti che mi hanno salvato e che hanno fatto di me un insegnante non erano formati per questo. Non si sono preoccupati delle origini della mia infermità scolastica. Non hanno perso tempo a cercarne le cause e tanto meno a farmi la predica. Erano adulti di fronte ad adolescenti in pericolo. Hanno capito che occorreva agire tempestivamente. Si sono buttati. Non ce l’hanno fatta. Si sono buttati di nuovo, giorno dopo giorno, ancora e ancora… Alla fine mi hanno tirato fuori. E molti altri con me. Ci hanno letteralmente ripescati. Dobbiamo loro la vita.
I nostri studenti che “vanno male” (studenti ritenuti senza avvenire) non vengono mai soli a scuola. In classe entra una cipolla: svariati strati di magone, paura, preoccupazione, rancore, rabbia, desideri insoddisfatti, rinunce furibonde accumulati su un substrato di passato disonorevole, di presente minaccioso, di futuro precluso. Guardateli, ecco che arrivano, il corpo in divenire e la famiglia nello zaino. La lezione può cominciare solo dopo che hanno posato il fardello e pelato la cipolla. Difficile spiegarlo, ma spesso basta solo uno sguardo, una frase benevola, la parola di un adulto, fiduciosa, chiara ed equilibrata per dissolvere quei magoni, alleviare quegli animi, collocarli in un presente rigorosamente indicativo.
Naturalmente il beneficio sarà provvisorio, la cipolla si ricomporrà all’uscita e forse domani bisognerà ricominciare daccapo. Ma insegnare è proprio questo: ricominciare fino a scomparire come professori. Se non riusciamo a collocare i nostri studenti nell’indicativo presente della nostra lezione, se il nostro sapere e il piacere di servirsene non attecchiscono su quei ragazzini e quelle ragazzine, nel senso botanico, la loro esistenza vacillerà sopra vuoti infiniti. Certo, non saremo gli unici a scavare quei cunicoli a non riuscire a colmarli, ma quelle donne e quegli uomini avranno comunque passato uno o più anni della loro giovinezza seduti di fronte a noi. E non è poco un anno di scuola andato in malora: è l’eternità in un barattolo.
Bisognerebbe inventare un tempo specifico per l’apprendimento. Il ‘presente d’incarnazione’, per esempio. Sono qui, in questa classe, e finalmente capisco! Ci siamo! Il mio cervello si propaga nel mio corpo: ‘si incarna’. […]
Forse è questo insegnare: farla finita con il pensiero magico, fare in modo che a ogni lezione scocchi l’ora del risveglio. […]
Il mal di grammatica si cura con la grammatica, gli errori di ortografia con l’esercizio di ortografia, la paura di leggere con la lettura, quella di non capire con l’immersione nel testo, e l’abitudine a non riflettere con il pacato sostegno di una ragione strettamente limitata all’oggetto che ci riguarda, qui ed ora, in questa classe, durante quest’ora di lezione, fintanto che ci siamo. […]
Apro l’abbaino a nord e la doppia finestra a sud, mi rituffo nel letto, ed eccoci occupati per la mattina a guardare squadriglie di rondini attraversare la nostra stanza, improvvisamente silenziose, forse intimidite dalle due figure coricate che le passano in rassegna. Il fatto è che, ai due lati della doppia finestra, due sottili vetri fissi rimangono chiusi. Lo spazio tra i due vetri laterali è ampio, di che lasciare passare tutti gli uccelli del cielo. Eppure, immancabilmente, tre o quattro di quelle scemotte vanno a sbattere contro i vetri fissi! (…) Risultato: vetro fisso. Toc! Tramortita sul tappeto. Allora uno di noi due si alza, prende la rondine stordita nel palmo della mano – non pesa quasi niente, ossa piene di vento -, aspetta che si risvegli, e la manda a raggiungere le sue amiche. La resuscitata vola via, ancora un po’ intontita, zigzagando nello spazio ritrovato (…)
Ecco, la mia metafora vale per quel che vale, ma è questo l’amore in materia di insegnamento, quando gli studenti volano come uccelli impazziti. A questo la professoressa G. o Nicole H. hanno dedicato tutta la loro esistenza: salvare dal coma scolastico una sfilza di rondini sfracellate. Non sempre si riesce, a volte non si trova una strada, alcune non si ridestano, rimangono al tappeto oppure si rompono il collo contro il vetro successivo; costoro rimangono nella nostra coscienza come le voragini di un rimorso in cui riposano le rondini morte in fondo al nostro giardino, ma ogni volta ci proviamo, ci abbiamo provato. Sono i NOSTRI studenti. Le questioni di simpatia o antipatia per l’uno o per l’altro (questioni quanto mai reali, ci mancherebbe!) non c’entrano. Nessuno di noi saprebbe dire il grado dei nostri sentimenti verso di loro. Non di questo amore si tratta. Una rondine tramortita è una rondine da rianimare, punto e basta.
Da: Diario di scuola di Daniel Pennac – T
raduzione di Yasmina Melaouah