Il grande Gatsby è un romanzo sulla disillusione, sull’impossibilità di far rivivere il passato, sulla incolmabile distanza tra realtà e desiderio. A fare di quest’opera un capolavoro è la raffinatezza di una scrittura adamantina che indaga il mondo e l’animo umano con un occhio malinconico, ma sempre pungente.
La traduzione di Fernanda Pivano è strepitosa: concisa, accurata, in grado di riflettere fedelmente le atmosfere del romanzo originale. Un capolavoro assoluto. Un libro da leggere e rileggere, senza farsi ingannare dai colpi di scena e godendo, alle letture successive, della fenomenale tecnica di uno dei più grandi romanzieri del novecento.
“Le pagine de Il Grande Gatsby sono preziose e pure come diamanti: descrivono la storia badando soprattutto alla verità dei personaggi e all’onestà dell’immaginazione di F. S. Fitzgerald.
Il Grande Gatsby è un intreccio di amori e di tragedie ambientato nell’estate 1922: Gatsby è un gangster raffinato di gusti e romantico di temperamento che organizza feste favolose nella sua villa di Long Island per impressionare la sua ex fidanzata Daisy, sposata ora a un miliardario che ha una relazione con la moglie di un garagista .”
Fernanda Pivano
La sagoma di un gatto oscillò nella luce lunare, e voltando il capo per guardarlo mi accorsi che non ero solo: ad una ventina di passi una figura era sorta dall’ombra del palazzo del mio vicino fermandosi in piedi, con le mani in tasca, a guardare i granelli argentei delle stelle. Qualcosa nei movimenti disinvolti e nella salda presa dei piedi sul prato mi fece capire che quello era il signor Gatsby, uscito a verificare quale fosse la porzione del cielo locale che gli spettava
Estratto
Negli anni più vulnerabili della giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente.
«Quando ti viene voglia di criticare qualcuno» mi disse «ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu.»
Non disse altro, ma eravamo sempre stati insolitamente comunicativi nonostante il nostro riserbo, e capii che voleva dire molto più di questo. Per questo ho la tendenza a evitare ogni giudizio, una abitudine che oltre a rivelarmi molti caratteri mi ha anche reso vittima di non pochi scocciatori inveterati. La mente anormale è pronta a scoprire questa particolarità e ad aggrapparvisi, quando si manifesti in una persona normale, e così accadde che all’università fui ingiustamente accusato di essere un politicante perché ero al corrente dei dolori segreti di strani uomini sconosciuti. La maggior parte delle confidenze non erano provocate: spesso ho finto di aver sonno, o di esser preoccupato, o sono giunto a ostentare un’indifferenza ostile, quando capivo che si profilava all’orizzonte una rivelazione intima; perché le rivelazioni intime dei giovani, o almeno i termini nei quali questi le esprimono, di solito sono plagiarie e deformate da evidenti omissioni. L’evitare i giudizi è fonte di speranza infinita. Temo ancora adesso che perderei qualcosa se dimenticassi che, come mio padre mi ha snobisticamente insegnato e io snobisticamente ripeto, il senso della dignità fondamentale è distribuito con parzialità alla nascita.
Ma dopo essermi così vantato della mia tolleranza, voglio ammettere che essa ha i suoi limiti. La condotta può fondarsi sulla roccia salda o sulle paludi infide, ma a un certo punto non mi importa più su che cosa si fondi. L’autunno scorso, quando ritornai dall’Est, mi pareva di desiderare che il mondo intero fosse uniforme e in una specie di eterno “attenti” morale; non volevo più scorrerie ribelli e indiscrezioni privilegiate nel cuore umano. Soltanto Gatsby, colui che dà nome a questo libro, restava fuori dalla mia reazione: Gatsby, che rappresentava tutto ciò che suscita in me disprezzo genuino. Se la personalità è una serie ininterrotta di gesti riusciti, allora c’era in lui qualcosa di splendido, una sensibilità acuita alle promesse della vita, come se egli fosse collegato a una di quelle macchine complicate che registrano terremoti a ventimila chilometri di distanza.
Questa capacità di reazione non aveva niente a che fare con l’impressionabilità flaccida che viene classificata col nome di “temperamento creativo”: era una dote straordinaria di speranza, una prontezza romantica quale non ho mai trovato in altri, e quale probabilmente non troverò mai più. No: Gatsby alla fine si rivelò a posto; fu ciò che lo minava, la polvere sozza che fluttuava nella scia dei suoi sogni a stroncare momentaneamente il mio interesse nei dolori passeggeri e nei fuggevoli orgogli degli uomini.
[…]
Io abitavo a West Egg, quella… be’, quella meno alla moda delle due, per quanto questa sia la formula più superficiale per esprimere il contrasto bizzarro che esisteva tra loro. La mia casa era all’estremità dell’uovo, a una cinquantina di metri soltanto dallo stretto, presa tra due edifici enormi che venivano affittati a dodici o quindicimila dollari per stagione. L’edificio alla mia destra era qualcosa di colossale sotto tutti i punti di vista: una copia accurata di qualche Hôtel de Ville della Normandia, con una torre da una parte, incredibilmente nuova sotto una barba rada di edera ancora
giovane, una piscina di marmo e più di venti ettari di prato e giardino. Era il palazzo di Gatsby. O meglio, siccome non conoscevo ancora il signor Gatsby, era un palazzo abitato da un signore con quel nome. Quanto alla mia casa, era un pugno in un occhio, un pugno tanto piccolo da essere trascurabile, ma avevo il panorama sul mare, la vista parziale sul prato del mio vicino e la rassicurante prossimità di gente milionaria, tutto per ottanta dollari al mese.
[…]
E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter più sfuggire. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in quella vasta oscurità dietro la città dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia… e una bella mattina…
Francis Scott Fitzgerald, Il Grande Gatsby (Traduzione di Fernanda Pivano, Mondadori, 1972)