Il libraio di Selinunte è un’opera didattica (o maieutica), non potremmo definirla altrimenti. Attraverso questo racconto Roberto Vecchioni ci restituisce la magia delle parole, la loro essenza e le mille sfumature che si nascondono dietro ogni termine scelto.
Il pifferaio magico è un libraio che non vende libri ma li legge ad alta voce. Saffo, Pessoa, Tolstoj, Rimbaud…E li legge a un ragazzo, l’unico che abbia orecchie per lui.
Egli, uomo misterioso, è giunto in città con i suoi bauli pieni di libri e tanta voglia di raccontarli. Ma a Selinunte non riceve l’accoglienza dovuta perché diverso, straniero, e quindi estraneo alla comunità, l’unica persona con cui stabilisce un legame magico è Frullo, che, nascosto dietro due pile di libri, lo ascolta leggere ogni sera i passi piú belli dei grandi poeti e romanzieri di tutti i tempi. E quelle parole, per il ragazzo come per ogni lettore, spalancano di colpo un universo di emozioni e di storie che hanno un’eco lunga, come una favola infinita parla al cuore e al cervello.
“La favola è fuori di qui, la favola è nel nostro strazio quotidiano, nella nostra incapacità di far corrispondere quel che diciamo a quel che sentiamo”.
Individuai allora due silenzi. Quello totale, inguaribile, della solitudine senza rimedio: e capii che questo silenzio lo riempiamo in modo ridicolo di cose che non hanno parole alle spalle; e l’altro, che le parole non abbandonano mai e te lo concedono per amarle ancora di più. Si parla per sentirsi vivi: è come se la morte, la fine, avessero paura, si tenessero lontane quando un uomo racconta ed emoziona.
La parola ha un seme, nasce e si allunga verso la luce che trova, si spezza, germoglia e muta petali, si adatta al clima, si trasforma per sopravvivere. La parola ricorda come eravamo, perché siamo, come saremo…le parole sono le cose ricreate dagli uomini, le parole sono vita.
Estratto:
Ci sono normalità, regole, armonie che nemmeno noti tanto è scontato che ci siano. Oggi lo so. È l’eccezione, lo sconvolgimento del consueto che ti mette ansia, ti rizza i nervi, ti sbulina l’animo.
La più grande bellezza e l’infima bruttezza partecipano del mistero. C’è negli antipodi, nel contrasto assurdo, nel diverso in natura come un filo che se lo tiri ti fa sentire vicino a una verità che le cose di tutti i giorni nemmeno sfiorano. C’è nel lampo e nel tuono una forza che manca alla giornata serena; c’è nella febbre, nell’incubo notturno, perfino in una sbornia, un indefinibile attimo di chiarezza, di certezza improvvisa. Quando qualcosa sconvolge ci dice molto più di quel che siamo abituati a sentire. L’inspiegabile, l’unico, arriva come a scuoterti, svegliarti da un sonno di ordinarie, concilianti abitudini. L’uomo ha livellato tutto, pur di far scorrere il suo sangue a quella precisa velocità, far battere il cuore a quel ritmo sempre uguale a se stesso e cosí vivere il piú a lungo possibile, non importa come, non importa a costo di cosa, pur di vivere disegnando una linea dritta, tra immagini a specchi consueti. Eccoci lì, macchine in un grande garage ordinato e pulito, dove ogni manovra d’entrata, uscita, sosta, parcheggio, precedenza, è stata così precisamente organizzata che non dobbiamo più chiederci quale sia il nostro posto, il nostro percorso, il nostro box.
Ma forse non siamo in un box. Forse questo mondo non è nato per essere un garage. Forse questo posto è stato pensato come un parco giochi o una stazione ferroviaria di treni a orari imprevedibili.
I pazzi, i selvaggi, i bambini hanno ancora di queste intuizioni.
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Il libraio leggeva le parole senza imporle all’ascolto, perché le parole non nascono, non nascevano in quell’autore, per favorire, acchiappare, assecondare, manovrare a piacimento le emozioni del pubblico, stipandole nella gabbia di un unico sentire. Il libraio restituiva le parole a se stesse. La lettura che usciva dalla sua bocca era un’offerta di toni per l’anima: salire, scendere, fermarsi. Salire, restare, risalire. Non una concessione al sentimentalismo, non una lacrima, un grido in più, non una risata, un ammiccamento: niente effluvi di furore, smargiassate, tenerezze.
Leggeva il tempo che dura la parola nel cuore, senza picchi o sbalzi… Il libraio lesse ancora: leggeva e io sentivo senza capire. Come se quei pezzetti di suono si calamitassero tra loro e formassero una piccola figura compatta: un unico assemblarsi in una sola vivida emozione; e io quella provavo, quella avevo dentro, non altre. Pensai: è come quando conosci una persona e non ci son più gli occhi, il braccio, le spalle, i piedi, i capelli; quelle cose non sono la persona, neanche messe tutte insieme: la persona è un’altra cosa.
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I venti non si sa mai quando arrivano, come arrivano. Sono improvvisi e inspiegabili come i moti del cuore. Un istante prima sei calmo, sei sereno ed ecco che ti senti addosso un’agitazione, una frenesia… i venti cambiano cose che eran lì immutate da sempre: spiagge, boschi, ghiacciai. Abbiamo forse anche noi dei venti nel cuore? Qualcosa che quando arriva è più forte di tutti e non vuol sentire ragioni? È così, pensai, che si diventa pazzi? È così che appare di schianto una verità che non conoscevi e non volevi conoscere?
Avevamo già letto quel brano a scuola, ma allora non avevo pensato al vento. Lì, in mezzo a quel turbinio, a quel vocio, a quello strusciare angoscioso dell’aria sui muri, lo vidi, il vento, quello che una volta nella vita entra nel cuore di un uomo e glielo sconquassa. Fuori era tutto un ululato. E così nel cuore di quel bandito (o era un bravo?, non ricordavo) che voleva suicidarsi. La pistola ci aveva impressionati tutti in classe: chissà se avrebbe tirato o no il grilletto, ci chiedevamo. Ma adesso capivo. C’era troppo vento dentro di lui perché lo tirasse. E un vento che non è come un libeccio: quando arriva non è mai per caso, non è mai senza un perché…
(…) e poi quando il vento s’attenuta, si placa, ti guardi intorno e vedi che tutto è stato sconvolto, che tutto è mutato, irriconoscibile. L’albero pende spezzato, le pietre sono rotolate via, i vetri infranti, i vasi dei fiori in cocci, la fontana zeppa di rami e foglie. Ti volgi intorno e c’è una luce mai vista, spettrale, come se il mondo ricominciasse da lì e tutta quella rovina fosse stata necessaria. I venti dell’anima portano qualcosa come questa luce, ma prima devono trascinarti giù, più giù, perché senza fine non c’è inizio.
Roberto Vecchioni, Il Libraio di Selinunte – Edizione Einaudi
In copertina: Carl Spitzweg, Il topo di biblioteca,1850.