Questo lavoro è la chiave che ci consente di entrare nel suo laboratorio poetico e di scoprire le sue letture, le sue riflessioni, non soltanto sugli uomini ma sulla letteratura e sulla poetica, e il suo rapporto con la sua stessa arte; è lo strumento privilegiato cui affida i suoi pensieri di scrittore e di uomo e, soprattutto, le confessioni ultime su quei tormenti intimi che segnano la sua vita.
Se volessimo fare una classificazione dei contenuti dell’opera potremmo suddividerli in:
1. riflessioni intime su se stesso;
2. descrizione dei luoghi frequentati ed abitati;
3. riflessioni filosofiche e teologiche;
4. considerazioni etimologiche;
5. meditazione sulle sue opere letterarie;
6. citazioni di titoli e versi di alcune sue poesie;
7. citazioni di molte opere straniere dalle quali prendeva spunto per i suoi lavori;
8. citazioni e riflessioni su autori classici come Omero e altri;
9. riflessioni su poeti stranieri, francesi, inglesi e americani;
10. scrittura “work in progress”.
“Il mestiere di vivere” è da leggere assolutamente; da tenere a portata di mano, conservare e custodire come qualcosa di unico e prezioso, come preziosa è la vita e l’esperienza di un uomo raro, un titano della poesia, capace di superare ogni umana barriera, di entrare nell’anima, e nel più profondo ed occulto mistero del cuore.
Nell’inquietudine e nello sforzo di scrivere, ciò che sostiene è la certezza che nella pagina resta qualcosa di non detto.
Estratti:
9 ottobre 1935
<<Ogni poeta s’è angosciato, meravigliato e ha goduto. L’ammirazione per un gran passo di poesia non va mai alla sua stupefacente abilità, ma alla novità della scoperta che contiene. Anche se proviamo un palpito di gioia a trovare un aggettivo accoppiato con riuscita a un sostantivo, che mai si videro insieme, non è stupore all’eleganza della cosa, alla prontezza dell’ingegno, all’abilità tecnica del poeta che ci tocca, ma meraviglia alla nuova realtà portata in luce.>>
10 novembre 1935
<<Se figura c’è nelle mie poesie, è la figura dello scappato di casa che ritorna con gioia al paesello, dopo averne passate d’ogni colore e tutte pittoresche, pochissima voglia di lavorare, molto godendo di semplicissime cose, sempre largo e bonario e reciso nei suoi giudizi, incapace di soffrire a fondo, contento di seguir la natura e godere duna donna, ma anche contento di sentirsi solo e disimpegnato, pronto ogni mattino a ricominciare: i Mari del sud insomma.>>
27 settembre 1937
<<La ragione perché le donne sono sempre state <<amare come la morte>>, sentine di vizi, perfide, Dalile, ecc. è in fondo soltanto questa: l’uomo eiacula sempre – se non è eunuco – con qualunque donna, mentre loro giungono raramente al piacere liberatore e non con tutti e sovente non con l’adorato – proprio perché adorato – e se ci giungono una volta non sognano più l’altro. Per la smania – legittima – di quel piacere sono pronte a commettere qualunque iniquità. Sono costrette a commetterla. E’ il tragico fondamentale della vita, e quell’uomo che eiacula troppo rapidamente, sarebbe meglio non fosse mai nato. E’ un difetto per cui vale la pena di uccidersi.>>
23 novembre 1937
<<L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. Quando manca questo senso – prigione, malattia, abitudine, stupidità – si vorrebbe morire.>>
31 dicembre 1937
<<Due cose t’interessano: la tecnica dell’amore e la tecnica dell’arte. A tutte e due sei giunto con ingenuità e rozzezza non prive di sapore. In tutte e due hai cominciato con eresie: venere solitaria e urlo passionalmente ritmato. In tutte e due hai creato qualche capolavoro. Ma verrà il giorno che scoprirai il tuo 13 ag. anche dell’arte.>>
27 marzo 1938
<<Una domenica passata a vagolare col pensiero come una mosca legata, tutto intontito corpo ed anima, percorso da brividi di rabbia, o stretto dalla mano di ferro, o blandito da una vagula apprensione di futuro meno atroce.
Osservo che il dolore abbruttisce, intontisce, schiaccia.
Ogni tentacolo con cui una volta sentivo, provavo e sfioravo il mondo, è come troncato e incancrenito al moncone. Passo la giornata come chi ha urtato uno spigolo con la rotula interna del ginocchio; tutta la giornata come quell’istante intollerabile. Il dolore è nel petto, che mi sembra sfondato e ancora avido, pulsante di sangue che fugge e non ritorna, come da un’enorme ferita.
Naturalmente, è tutta una fissazione. Dio mio, ma è perché sono solo, e domani una rapida felicità, e poi di nuovo brividi, la stretta, lo squarcio. Non ho più fisicamente la forza di star solo. Una volta sola mi è riuscito, ma ora è una ricaduta e, come tutte le ricadute, è mortale.
Eppure a questo stato si aggiunge un’altra sofferenza, come chi, tagliato in due, senta ancora mal di denti. È questa: che da Brancaleone ho scritto un 2 febbraio una lettera simile, quella della crosta. Quale è stata la mia vita da allora? Valeva la pena di essere così vile, per ottenere che cosa? Altri squarci, altra cancrena, altro sfottimento.
Sono diventato idiota. Mi chiedo e richiedo: che cosa le ho fatto di male?
Abbi il coraggio, Pavese, abbi il coraggio.
Pensa che hai un merito se spacci te solo. Ti sarà contato.>>
3 dicembre 1938
<<Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi.>>
10 dicembre 1938
<<Ogni cosa che ci è accaduta è una ricchezza inesauribile: ogni ritorno a lei l’accresce e l’allarga, la dota di rapporti e l’approfondisce. L’infanzia non è soltanto l’infanzia vissuta, ma l’idea che ce ne facemmo nella giovinezza, nella maturità, ecc. Per questo appare l’epoca più importante: perché la più arricchita dai ripensamenti successivi.>>
4 maggio 1942
<<Nell’inquietudine e nello sforzo di scrivere, ciò che sostiene è la certezza che nella pagina resta qualcosa di non detto.>>
27 giugno 1946
<<Aver scritto qualcosa che ti lascia come un fucile sparato, ancora scosso e riarso, vuotato di tutto te stesso, dove non solo hai scaricato tutto quello che sai di te stesso, ma quello che sospetti e supponi, e i sussulti, i fantasmi, l’inconscio – averlo fatto con lunga fatica e tensione, con cautela di giorni e tremori e repentine scoperte e fallimenti e irrigidirsi di tutta la vita su quel punto – accorgersi che tutto questo è come nulla se un segno umano, una parola, una presenza non lo accoglie, lo scalda – e morir di freddo – parlare al deserto – essere solo notte e giorno come un morto.>>
12 aprile 1947
<<Aver l’impressione che ogni cosa buona che ti tocca sia un felice errore, una sorte, un favore immeritato, non nasce da buon animo, da umiltà e distacco, ma dal lungo servaggio, dall’accettazione dell’arbitrio e della dittatura. Hai l’anima dello schiavo, non del santo.
Che a vent’anni, quando i primi amici ti lasciarono, tu soffrissi per nobile sofferenza, è una tua illusione. Ti dispiacque dover smettere abitudini gradite, non altro. E continui adesso, tale e quale.
Tu sei solo, e lo sai. Tu sei nato per vivere sotto le ali di un altro, sorretto e giustificato da un altro, che sia però tanto gentile da lasciarti fare il matto e illudere di bastare da solo a rifare il mondo. Non trovi mai nessuno che duri tanto; di qui, il tuo soffrire i distacchi -non per tenerezza. Di qui, il tuo rancore per chi se n’è andato; di qui la tua facilità a trovarti un nuovo patrono -non per cordialità. Sei una donna, e come donna sei caparbio. Ma non basti da solo, e lo sai.>>
17 Agosto 1950
<<I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece che sadismo.
Il piacere di farmi la barba dopo due mesi di carcere – di farmela da me, davanti a uno specchio, in una stanza d’albergo, e fuori era il mare.
E’ la prima volta che faccio il consuntivo di un anno non ancor finito. Nel mio mestiere dunque son re.
In dieci anni ho fatto tutto. Se penso alle esaltazioni di allora.
Nella mia vita sono più disperato e perduto di allora. Che cosa ho messo insieme? Niente. Ho ignorato per qualche anno le mie tare, ho vissuto come se non esistessero. Sono stato stoico. Era eroismo? No non ho fatto fatica. E poi, al primo assalto dell’ “inquieta angosciosa”, sono ricaduto nella sabbia mobile. Da marzo mi ci dibatto. Non importano i nomi. Sono altro che nomi di fortuna, nomi casuali e a questo trionfo manca la carne, manca il sangue, manca la vita.
Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono. Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò..>>
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere