Con questo romanzo epistolare Tabucchi rinnova un’illustre tradizione narrativa seppure infrangendone i codici e pervertendone il genere. A poco a poco, infatti, ci accorgiamo che qualcosa “non torna” in tutte queste missive: il paesaggio sembra slittare sotto i nostri occhi, i destinatari sembrano sbagliati, i mittenti scomparsi e i tempi capovolti, come se il prima e il dopo si scambiassero di posto e le lettere fossero in anticipo o in ritardo sullo stesso messaggio che recano con sé; e quasi che i destini degli uomini, come vuole il Mito, seguitassero a non incontrarsi, le parole si perdessero vanamente nell’etere e le persone si smarrissero nel labirinto delle loro brevi esistenze. Insomma, come se la vita fosse un film perfetto e irreprensibile di cui è stato sbagliato solo il montaggio.
Nota di copertina
La lettera intitolata Il fiume, l’avevo inizialmente intitolata Senza fine, pensando un’indimenticabile canzone di Gino Paoli, anche perché mi pareva che parole come: “Sei un attimo senza fine, non hai ieri, non hai domani” non si possano dire impunemente a una donna: esigono uno svolgimento qualsiasi. Non escludo che a qualcuno essa possa ricordare A terceira margem do rio di Guimaraes Rosa, racconto la cui maestosità mi impressionò quanto la vista del Rio delle Amazzoni. Ma, come è stato detto, la letteratura non è un treno che corre in superficie, ma un fiume carsico che sbuca dove meglio gli pare, nel senso che il suo corso sfugge ad ogni controllo di superficie.
Post scriptum, A. T.
E ho pensato alla vita, che è surrettizia, e che raramente mostra in superficie le sue ragioni, e invece il suo vero percorso avviene in profondità, come un fiume carsico.
Ti avevo detto: ora è finita. Ma senza dirtelo, perché anche il silenzio è carsico.
Il fiume
Mia Cara,
lo so che ti occupi del passato: è il tuo mestiere. Ma questa è un’altra storia, credimi. Il passato è più facile da leggere: uno si volta all’indietro e, potendo, dà un’occhiata. E poi, sia come sia, esso rimane sempre impigliato da qualche parte, magari a brandelli. A volte bastano soltanto l’olfatto e le papille gustative, è notorio: lo sappiamo da certi romanzi, anche belli. Oppure un ricordo, quale che sia: un oggetto visto nell’infanzia, un bottone ritrovato in un cassetto, che so, una persona che essendo un’altra te ne ricorda un’altra, un vecchio biglietto del tram. E all’improvviso sei lì, proprio su quel trammino sferragliante che andava da Porta Ticinese al Castello Sforzesco, come un niente entri nel portone del palazzo ottocentesco, lo scalone ha un corrimano di ghisa lavorata con una testa di serpente, sali due rampe, la porta si apre senza neppure che tu suoni il campanello e non te ne stupisci affatto, anche perché nell’ingresso, sopra il cassettone rococò, dietro la vecchia pendola neoclassica, vedi che lo specchio antico chiazzato di macchie brunastre è attraversato da una ferita che lo fende da un angolo all’altro, e ricordi che quel giorno mi dicesti: una persona con una malattia come la sua non può sfidare così il destino, è come chiamare disgrazie. E a quel punto capisci che la porta si è aperta da sola semplicemente perché lui, che voleva sfidare il destino, è stato fottuto come tutti quelli che vogliono sfidare il destino, chissà dove è mai sepolto, e invece lo specchio ferito è sempre lì, come quel giorno in cui tu capisti chiaramente ciò che doveva succedere.
Oppure prendi un album di fotografie, uno qualsiasi di una persona qualsiasi, come me, come te, come tutti. E ti accorgi che la vita è lì nei diversi segmenti che stupidi rettangoli di carta rinchiudono senza lasciarla uscire dai loro stretti confini. E intanto la vita è gonfia, impaziente, vuole andare al di là di quel rettangolo, perché sa che quel bambino vestito di bianco con le mani giunte e la fascia della prima comunione al braccio, domani (dico “domani” tanto per dire un giorno qualsiasi) piangerà di nascosto perché si vergognerà di se stesso: una piccola turpitudine? Piccola o grande non ha importanza, perché essa prevede il rimorso, ed è di questo che stiamo parlando. Ma quella feroce fotografia, più severa di una governante, non lascia evadere la vera verità dai suoi pochi centimetri. La vita è prigioniera della sua rappresentazione: del giorno dopo ti ricordi solo tu.
Guarda, fu così, ti ricordi?, e per ricordare non potrei neppure citare una poesia, tipo panni poveri stesi ad asciugare, che sono sempre un elemento di malinconia, parlano di vite sconosciute e modeste, e così semplici, di quella semplicità che solo i grandi poeti possono cogliere, o almeno così dicono.
No: invece c’era un paesaggio maestoso, di quel bello che è troppo bello quando è perfetto, come in un affresco di Simone Martini, dove un cavallo bardato conduce un ineffabile cavaliere verso un ineffabile altrove. E io guidavo la mia automobile. Però piano, cercando di accompagnare le curve che solcano quelle colline inclinandomi con il corpo ad ognuna di esse, come si fa con la bicicletta, perché avrei voluto essere un ragazzino che percorreva le dolcezze di quel paesaggio con la bicicletta nuova fiammante che gli hanno regalato a casa per il suo compleanno. Era un borgo di quattro case, non di più, di pietra grezza, neppure imbiancata, senza nessuno, un fienile dava sulla strada, con dei mattoni traforati dai quali pendevano dei fili di paglia che fluttuavano alla brezza, inutili, abbandonati anche loro. Ci sono cose così, che succedono e non sai perché. Non c’era nessuna ragione di fermarsi in quel luogo deserto, neanche per prendere un caffè, perché non c’era proprio nulla, a parte una stradetta che sull’angolo del fienile, lasciando l’asfalto, diventava sterrata, e portava verso la campagna: un altro nulla, là sullo sfondo. E io la presi.
In borghi di questo tipo c’è sempre una chiesetta o una cappella, l’avrai notato. E’ che in origine erano poveri agglomerati di case contadine attorno alla villa padronale, e i contadini erano persone devote al padrone e alla messa. E proprio lì, in fondo alla strada sterrata, fra due cipressi, esattamente come nelle oleografie dell’Ottocento o nelle cartoline dove oggi c’è scritto “The Heart of Civilization”, c’era una chiesetta.
Abbandonata anche lei, come tutto il resto. Sulla punta del tetto spiovente, in una bifora di mattoni aperta nell’azzurro, pendevano due campane che sembravano piuttosto due campanacci per le vacche, e anch’esse inutilizzate da tempo, si capiva.
Ho parcheggiato la macchina proprio lì, sotto uno dei cipressi. Subito dopo, filari di viti e cipressi che pennellavano le colline: i nostri posti, per capirci. E tutto come doveva essere. Era il maggio. Ho pisciato contro il cipresso, anche se non ne avevo necessità, forse attribuendo inconsapevolmente a quell’atto fisiologico la ragione di essermi fermato in un luogo in cui nessun motivo mi induceva a fermarmi. Il portoncino della chiesetta era chiuso, ne ho fatto il giro attraversando le erbacce che ne assediavano il perimetro, facendo attenzione a non disturbare le vipere che amano quei luoghi abbandonati. Fra gli interstizi delle vecchie pietre crescevano cespugli di capperi, con chiome fluenti che chissà perché mi hanno fatto pensare ad Elettra, e ho cercato di ricordare dei versi che una volta conoscevo, ma erano introvabili nella memoria. Ho colto un paio di capperi e li ho masticati, anche se erano acerbi, e ne ho gustato l’agrezza, quasi che quel sapore sgradito mi restituisse il senso di ciò che è accaduto, come una penitenza sommessa e necessaria che ci ricordi con il suo sapore aspro la colpa che abbiamo commesso. E ho pensato alla vita, che è surrettizia, e che raramente mostra in superficie le sue ragioni, e invece il suo vero percorso avviene in profondità, come un fiume carsico.Ti avevo detto: ora è finita. Ma senza dirtelo, perché anche il silenzio è carsico.
[…]
Dunque ero lontano, in quel frattempo, e questo è fondamentale affinché tu capisca cose incomprensibili, e la solitudine era grande, là fra i monti. Entrai in una taverna che si chiamava Antartes, che in greco vuol dire partigiano, e anch’io mi sentivo così, come uno che vive alla macchia, si nasconde e combatte, ma contro chi?, pensavo, beh, contro le cose, si sa com’è, le cose, voglio dire tutto, perché la vita a poco a poco si riempie e intumidisce senza che tu te ne accorga, ma quel gonfiore è un di troppo, come una ciste o un caos, ed a un certo punto quell’insieme di cose, di oggetti, di ricordi, di rumori, di sogni o intersogni non ti dice più niente, è solo un rumore indistinto, un groppo, un singhiozzo che non sale e non scende, e strozza. Stavo fuori, sotto il pergolato di vite, e mangiavo un piatto squisito fatto con le interiora di agnello, guardavo le gole scoscese di Creta, quelle montagne aspre macchiate dal colore degli oleandri fra il verde degli oliveti, che lì è un verde cupo e lustro, e osservavo un gruppo di capre, che l’oleandro non lo mangiano, loro che masticano persino il pruno, e pensavo: ecco, ce l’ho fatta.
Un mio amico sostiene che il suicidio, per il fatto di essere una scelta radicale, paradossalmente in fondo è più facile: un gesto, e via. Ben più difficile è il silenzio. Esso presuppone pazienza, costanza, testardaggine; e soprattutto si confronta con il giorno-dopo-giorno della nostra vita, i giorni che ci restano, uno dopo l’altro, lunghi davvero nelle loro piccole ore, è come un voto, è di cristallo, un niente lo può rompere, e il suo nemico è il tempo. […] Il silenzio è davvero fragile.
[…] Lo so che sto facendo un volo pindarico, e che tutto questo non ha logica, ma certe cose, lo sai, non seguono nessuna logica, o almeno una logica che sia comprensibile per noi che siamo sempre alla ricerca della stessa logica: causa effetto, causa effetto, causa effetto, solo per dare un senso a ciò che è privo di senso. E’ per questo, come direbbe il mio amico, che hanno scelto il silenzio le persone che nella vita in un modo o nell’altro hanno scelto il silenzio: perché hanno intuito che parlare, e soprattutto scrivere, è sempre un modo di venire a patti con la mancanza di senso della vita.
Dunque: ora risiamo nel perimetro esterno della piccola pieve abbandonata fra gli sterpi e i sassi. E forse con qualche biscia, che i poeti ce la vogliono, anche se non ne vidi nessuna. Seppure modesta (ah, davvero modesta, mi ricordò la gobba di un sarto che cuciva i vestiti di mio padre nella mia infanzia), la chiesina aveva un’abside, con una porticina angusta per la quale ai suoi tempi, suppongo, il prete entrava per celebrare la messa domenicale ai contadini provenendo dalla sua abitazione dirimpettaia: neppure una canonica, appena un casolare. E su quella porticina bacata dal tarlo c’era una targhetta scritta a macchina e appiccicata con il nastro adesivo. Una targhetta insensata che diceva: “Scelta vita futura. Entrata libera”.
Logico che entrai. Tu cosa avresti fatto, tu che ti sei con centrata sul passato?, obiettivo ipocrita, tra l’altro, per chi in realtà sta pensando a ciò che può essere il domani, visto che il passato gli ha lasciato una certa amarezza. Il futuro, il futuro! E’ la nostra cultura, basata su ciò che potremmo essere, compreso l’Evangelio (sia detto con il dovuto rispetto) perché di noi sarà il Regno dei Cieli, tempo futuro, insomma, l’avvenire, visto che il passato è un disastro e il presente non ci basta mai.
E niente, sai, davvero niente basta, nemmeno le ginestre che fioriscono a maggio per chi sa vederle e che io guardavo senza vedere, come di solito facciamo tutti, fino a cadere nella nostalgia dell’irreversibile, che è la tomba definitiva di tutti quelli come noi.
[…]
Ero nel buio completo, almeno per quel che riguardava il passato. Se ne era andato così, come sabbia fra le dita, scusa la metafora abusata, ma davvero lo capii in quel momento: perché il passato, anche lui, è fatto di momenti, e ogni momento è come un minuscolo granello che sfugge, tenerlo, in sé e per sé sarebbe facile, ma è metterlo insieme con gli altri che è impossibile. Insomma: logica, nessuna, mia Cara. L’idea di un futuro, seppure posta come ipotesi, mi parve ancora più nebbiosa. Davvero un grande banco di nebbia, tipo certi disegni che appaiono nelle trasmissioni televisive serali dove c’è una persona educata che fa profezie meteorologiche.
E’ stato così che sono entrato nel gioco. Niente ricerca dell’io più profondo, di quello più nascosto negli abissi della nostra coscienza, come vorrebbero certi palombari delle nostre anime. Solo una concentrazione sul ricordo più nascosto, quello che ci rese felici in passato e che vorremmo fosse la nostra vita futura, ammesso che essa esista: quel punto lì, e basta. Avevo desiderato di averti già conosciuta quando ti conobbi, e in questo, fino ad ora, è probabilmente consistito il mio desiderio più nascosto. Perché in quel punto lì sogno e desiderio coincidono, essendo la stessa cosa, almeno per coloro che immaginano anche molto vagamente una vita futura dopo che le cellule e il genoma che le tiene insieme non si siano fatti polvere.
[…]
…ti scrivo da un tempo rotto. Tutto è in frantumi, mia Cara, i frammenti sono volati da una parte all’altra e mi è impossibile raccoglierli se non in questo circolo forzato in cui continuo a girare fino alla nausea e all’idiozia, finché esso non si aprirà in un punto ignoto. Che però non sarà quello di un’altra vita, ma di questa. Perché non è dall’altra parte che ti sto parlando ma da questa, anche se essa appartiene insospettabilmente ad un’orbita diversa dalla tua. Se fosse il contrario sarebbe troppo facile uscirne: basterebbe vivere la vita che ci è concessa come se si vivesse in un’altra dimensione, cosa che pensatori anche sublimi hanno saputo risolvere in maniere artistiche spesso sublimi. No, il problema è assai diverso. E’ che l’orbita è allo stesso tempo la stessa e un’altra, io vedo la tua e vi entro quando voglio, senza che tu possa fare lo stesso con la mia. Io ci sono senza che tu abbia bisogno di essere con me, né di saperlo, perché la tua orbita è unica e irripetibile, e invece la mia è sincronica con se stessa, e gira e gira all’infinito. E la beffa, come ti accennavo, consiste proprio in questo, che il momento dell’uscita avverrà solo nel mio Attuale, cioè in quello che io sto essendo senza esserlo: le dimensioni si sono invertite, ciò che era solo ricordo è diventato presente, e ciò che davvero sono o dovrei essere, il mio presunto ora, è diventato virtuale e lo scorgo da lontano come da un cannocchiale rovesciato, aspettando di rientrarvi all’ultimo momento, per quell’istante terminale in cui ci è dato di ripercorrere all’indietro tutta la nostra vita, che invece sono condannato a ripercorrere senza sosta. E in quell’istante concessomi avrò appena il tempo di annaspare nell’aria come un annegato, e poi: buonanotte. Sai, penso che nell’evadere da questo tempo ripetuto, che è una forma di perversa entropia, non si verificherà neppure una piccola esplosione, come quando nell’universo una massa di energia compressa esplode provocando una nuova stella. Altro che quello che affermava il filosofo matto, che si deve aggiungere ancora del caos dentro di noi per poter far nascere una stella danzante. Ma quale stella! Basterà solo un minuscolo foro, e tutta questa energia insensata se ne fuggirà come quando si buca il tubo del gas e… fssss… fssss…, tutto finirà in un attimo, in una modestissima bolla, un residuo, un niente fatto di niente, come una scorreggia del tempo. Perciò ti mando un saluto impossibile, come chi fa vani cenni da una sponda all’altra del fiume sapendo che non ci sono sponde, davvero, credimi, non ci sono sponde, c’è solo il fiume, prima non lo sapevamo, ma c’è solo il fiume, vorrei gridartelo: attenta, guarda che c’è solo il fiume!, ora lo so, che idioti, ci preoccupavamo tanto delle sponde e invece c’era solo il fiume. Ma è troppo tardi, a che serve dirtelo?
Dunque ero lontano, in quel frattempo, e questo è fondamentale affinché tu capisca cose incomprensibili, e la solitudine era grande, là fra i monti. Entrai in una taverna che si chiamava Antartes, che in greco vuol dire partigiano, e anch’io mi sentivo così, come uno che vive alla macchia, si nasconde e combatte, ma contro chi?, pensavo, beh, contro le cose, si sa com’è, le cose, voglio dire tutto, perché la vita a poco a poco si riempie e intumidisce senza che tu te ne accorga, ma quel gonfiore è un di troppo, come una ciste o un caos, ed a un certo punto quell’insieme di cose, di oggetti, di ricordi, di rumori, di sogni o intersogni non ti dice più niente, è solo un rumore indistinto, un groppo, un singhiozzo che non sale e non scende, e strozza. Stavo fuori, sotto il pergolato di vite, e mangiavo un piatto squisito fatto con le interiora di agnello, guardavo le gole scoscese di Creta, quelle montagne aspre macchiate dal colore degli oleandri fra il verde degli oliveti, che lì è un verde cupo e lustro, e osservavo un gruppo di capre, che l’oleandro non lo mangiano, loro che masticano persino il pruno, e pensavo: ecco, ce l’ho fatta.
Un mio amico sostiene che il suicidio, per il fatto di essere una scelta radicale, paradossalmente in fondo è più facile: un gesto, e via. Ben più difficile è il silenzio. Esso presuppone pazienza, costanza, testardaggine; e soprattutto si confronta con il giorno-dopo-giorno della nostra vita, i giorni che ci restano, uno dopo l’altro, lunghi davvero nelle loro piccole ore, è come un voto, è di cristallo, un niente lo può rompere, e il suo nemico è il tempo. […] Il silenzio è davvero fragile.
[…] Lo so che sto facendo un volo pindarico, e che tutto questo non ha logica, ma certe cose, lo sai, non seguono nessuna logica, o almeno una logica che sia comprensibile per noi che siamo sempre alla ricerca della stessa logica: causa effetto, causa effetto, causa effetto, solo per dare un senso a ciò che è privo di senso. E’ per questo, come direbbe il mio amico, che hanno scelto il silenzio le persone che nella vita in un modo o nell’altro hanno scelto il silenzio: perché hanno intuito che parlare, e soprattutto scrivere, è sempre un modo di venire a patti con la mancanza di senso della vita.
Dunque: ora risiamo nel perimetro esterno della piccola pieve abbandonata fra gli sterpi e i sassi. E forse con qualche biscia, che i poeti ce la vogliono, anche se non ne vidi nessuna. Seppure modesta (ah, davvero modesta, mi ricordò la gobba di un sarto che cuciva i vestiti di mio padre nella mia infanzia), la chiesina aveva un’abside, con una porticina angusta per la quale ai suoi tempi, suppongo, il prete entrava per celebrare la messa domenicale ai contadini provenendo dalla sua abitazione dirimpettaia: neppure una canonica, appena un casolare. E su quella porticina bacata dal tarlo c’era una targhetta scritta a macchina e appiccicata con il nastro adesivo. Una targhetta insensata che diceva: “Scelta vita futura. Entrata libera”.
Logico che entrai. Tu cosa avresti fatto, tu che ti sei con centrata sul passato?, obiettivo ipocrita, tra l’altro, per chi in realtà sta pensando a ciò che può essere il domani, visto che il passato gli ha lasciato una certa amarezza. Il futuro, il futuro! E’ la nostra cultura, basata su ciò che potremmo essere, compreso l’Evangelio (sia detto con il dovuto rispetto) perché di noi sarà il Regno dei Cieli, tempo futuro, insomma, l’avvenire, visto che il passato è un disastro e il presente non ci basta mai.
E niente, sai, davvero niente basta, nemmeno le ginestre che fioriscono a maggio per chi sa vederle e che io guardavo senza vedere, come di solito facciamo tutti, fino a cadere nella nostalgia dell’irreversibile, che è la tomba definitiva di tutti quelli come noi.
[…]
Ero nel buio completo, almeno per quel che riguardava il passato. Se ne era andato così, come sabbia fra le dita, scusa la metafora abusata, ma davvero lo capii in quel momento: perché il passato, anche lui, è fatto di momenti, e ogni momento è come un minuscolo granello che sfugge, tenerlo, in sé e per sé sarebbe facile, ma è metterlo insieme con gli altri che è impossibile. Insomma: logica, nessuna, mia Cara. L’idea di un futuro, seppure posta come ipotesi, mi parve ancora più nebbiosa. Davvero un grande banco di nebbia, tipo certi disegni che appaiono nelle trasmissioni televisive serali dove c’è una persona educata che fa profezie meteorologiche.
E’ stato così che sono entrato nel gioco. Niente ricerca dell’io più profondo, di quello più nascosto negli abissi della nostra coscienza, come vorrebbero certi palombari delle nostre anime. Solo una concentrazione sul ricordo più nascosto, quello che ci rese felici in passato e che vorremmo fosse la nostra vita futura, ammesso che essa esista: quel punto lì, e basta. Avevo desiderato di averti già conosciuta quando ti conobbi, e in questo, fino ad ora, è probabilmente consistito il mio desiderio più nascosto. Perché in quel punto lì sogno e desiderio coincidono, essendo la stessa cosa, almeno per coloro che immaginano anche molto vagamente una vita futura dopo che le cellule e il genoma che le tiene insieme non si siano fatti polvere.
[…]
…ti scrivo da un tempo rotto. Tutto è in frantumi, mia Cara, i frammenti sono volati da una parte all’altra e mi è impossibile raccoglierli se non in questo circolo forzato in cui continuo a girare fino alla nausea e all’idiozia, finché esso non si aprirà in un punto ignoto. Che però non sarà quello di un’altra vita, ma di questa. Perché non è dall’altra parte che ti sto parlando ma da questa, anche se essa appartiene insospettabilmente ad un’orbita diversa dalla tua. Se fosse il contrario sarebbe troppo facile uscirne: basterebbe vivere la vita che ci è concessa come se si vivesse in un’altra dimensione, cosa che pensatori anche sublimi hanno saputo risolvere in maniere artistiche spesso sublimi. No, il problema è assai diverso. E’ che l’orbita è allo stesso tempo la stessa e un’altra, io vedo la tua e vi entro quando voglio, senza che tu possa fare lo stesso con la mia. Io ci sono senza che tu abbia bisogno di essere con me, né di saperlo, perché la tua orbita è unica e irripetibile, e invece la mia è sincronica con se stessa, e gira e gira all’infinito. E la beffa, come ti accennavo, consiste proprio in questo, che il momento dell’uscita avverrà solo nel mio Attuale, cioè in quello che io sto essendo senza esserlo: le dimensioni si sono invertite, ciò che era solo ricordo è diventato presente, e ciò che davvero sono o dovrei essere, il mio presunto ora, è diventato virtuale e lo scorgo da lontano come da un cannocchiale rovesciato, aspettando di rientrarvi all’ultimo momento, per quell’istante terminale in cui ci è dato di ripercorrere all’indietro tutta la nostra vita, che invece sono condannato a ripercorrere senza sosta. E in quell’istante concessomi avrò appena il tempo di annaspare nell’aria come un annegato, e poi: buonanotte. Sai, penso che nell’evadere da questo tempo ripetuto, che è una forma di perversa entropia, non si verificherà neppure una piccola esplosione, come quando nell’universo una massa di energia compressa esplode provocando una nuova stella. Altro che quello che affermava il filosofo matto, che si deve aggiungere ancora del caos dentro di noi per poter far nascere una stella danzante. Ma quale stella! Basterà solo un minuscolo foro, e tutta questa energia insensata se ne fuggirà come quando si buca il tubo del gas e… fssss… fssss…, tutto finirà in un attimo, in una modestissima bolla, un residuo, un niente fatto di niente, come una scorreggia del tempo. Perciò ti mando un saluto impossibile, come chi fa vani cenni da una sponda all’altra del fiume sapendo che non ci sono sponde, davvero, credimi, non ci sono sponde, c’è solo il fiume, prima non lo sapevamo, ma c’è solo il fiume, vorrei gridartelo: attenta, guarda che c’è solo il fiume!, ora lo so, che idioti, ci preoccupavamo tanto delle sponde e invece c’era solo il fiume. Ma è troppo tardi, a che serve dirtelo?
Antonio Tabucchi, Si sta facendo sempre più tardi