Romanzo breve o se si preferisce racconto lungo, “La Malora” procura a Beppe Fenoglio il primo successo indiscusso presso la critica letteraria Italiana.
Il romanzo uscì nel 1954 nella collana einaudiana “I gettoni” che due anni prima aveva tenuto a battesimo l’esordio di Fenoglio con “I ventitre giorni della città di Alba”.
Nel racconto vivono con innata potenza i personaggi che lo scrittore conosceva e osservava nella sua quotidianità albese. Dopo aver scritto La malora Fenoglio nel suo diario annota:
“Da dove sono seduto vedo un gran tratto di langa, da Sant’Antonio a Ciglié. Osservo ad una ad una, le cascine che vi stanno, quale sulle creste e quale emergente appena coi tetti dai rittani, e una balsamica sicurezza mi pervade alla certezza che in ognuna di esse può benissimo viverci, così come io le ho fatte vivere nella Malora, una famiglia Rabino ed una Braida“.
La malora, il titolo è riuscitissimo e rispecchia in pieno lo stile di vita dei protagonisti, è una storia elementare fatta di fatica e silenzi, di dolore e di violenza e lo scenario in cui si svolgono le vicende sono le colline delle Langhe.
Il protagonista è Agostino, un ragazzo figlio di contadini poverissimi, il quale viene mandato a servizio presso un’altra famiglia. Agostino narra e commenta la propria vicenda di ragazzo povero ma fermo nel resistere alla sfortuna, in un contesto dominato da pure leggi economiche. Egli vive gli anni della giovinezza abbandonato alla triste sorte che il destino gli ha riservato, immerso in avvenimenti tragici, quali la morte del padre, l’inutile lotta della famiglia di Tobia per emergere dalla propria condizione, la malattia del fratello chiuso in seminario.
L’unica speranza che si accende in lui è l’amore per Fede, che però scompare quando ella è promessa in matrimonio dai genitori della ragazza ad un altro uomo.
L’unico sogno di Agostino rimane quello di tornare a lavorare la terra che era stata di suo padre: desiderio che in ultimo sarà realizzato, anche se il giovane non potrà più contare sulla presenza della madre poiché ella morirà poco dopo la morte di Emilio.
uscii nel freddo, arrivai al camposanto e mi misi ad andar su e giù lungo il muretto come se facessi un po’ di compagnia a mio padre, poi sentii dei passi nella neve; era Emilio che veniva con la stessa mia ispirazione, Ci gettammo l’uno incontro all’altro e ci piangemmo sulla spalla.
Estratto:
Avevo appena sotterrato mio padre e già andavo a ripigliare in tutto e per tutto la mia vita grama, neanche la morte di mio padre valeva a cambiarmi il destino. E allora potevo tagliare a destra, arrivare a Belbo e cercarvi un gorgo profondo abbastanza.
Invece tirai dritto, perché m’era subito venuta in mente mia madre che non ha mai avuto nessuna fortuna, e mio fratello che se ne tornava in seminario con una condanna come la mia.
[…]
Dopo dei mesi che lavoravo al Pavaglione, arrivò per me la volta buona di calare ad Alba. Tanta la voglia che n’avevo che quella notte la passai mezza bianca, e bastò a svegliarmi al romper del giorno il rumore che fece Tobia per aprire il cassetto del carro e metterci dentro il pane e il lardo e il pintone di vino da mangiare e bere laggiù in città.
Scendevamo, Tobia dietro al freno e io davanti alla bestia, che a ogni svolta m’aspettavo di veder Alba distesa sotto i miei occhi come una carta tutta colorata. A San Benedetto si parlava sempre d’Alba quando si voleva parlare di città, e chi non n’aveva mai viste e voleva figurarsene una cercava di figurarsi Alba. Bene, stavolta l’avrei vista e ci avrei camminato dentro, e quella fosse pur stata la prima e l’ultima volta, io avrei poi sempre potuto entrare in ogni discorso su Alba e mai più provare invidia per chi l’aveva vista e si dava delle arie a discorrerne. E mentre che ero tanto lontano da casa che vedevo Alba, a casa in un certo senso ci tornavo, perché mio fratello Emilio stava in Alba.
(…) Mi stampai nella testa i campanili e le torri e lo spesso delle case, e poi il ponte e il fiume, la più gran acqua che io abbia mai vista, ma così distante nella piana che potevo soltanto immaginarmi il rumore delle sue correnti; quel fiume Tanaro dove, a sentir contare, tanti della nostra razza langhetta si sono gettati a finirla.
– Per dove piglio per andare al seminario?
– Fatti insegnare mentre vai. E non aver vergogna a parlare coi cittadini. Sono bestie come noi.
Partii, per strada chiesi a due del seminario, ciascuno m’insegnò solo un pezzo, ma il terzo non fece che voltarsi e puntare il dito a un palazzo che deve essere una vera antichità, proprio lì in faccia.
Entrai nell’androne… Poi lui entrò…
– Però sei ben pallido, Emilio.
– Usciamo poco o niente da qui dentro -. Poi la voce gli si fece anche più fina: – Agostino, hai del denaro appresso?
Avevo dieci soldi e li tirai fuori: – Li vuoi? Tanto io non sono buono che a perderli al nove.
– Ho fame, Agostino. Esci un momento con quei soldi e comprami qualcosa da mangiare.
– Cosa ti compero? – Mi ricordavo sì di quello che gli piaceva mangiare a Emilio, ma ai tempi di casa, adesso mi sembrava di dovergli domandare anche come respirasse.
– Comprami qualunque cosa.
Io subito non mi mossi, stavo coi miei dieci soldi in mano e negli occhi di mio fratello vedevo come in uno specchio me e lui al paese, un dopopranzo di festa, che pescavamo con le mani i gamberi in Belbo. – Comprami qualcosa che mi rallegri, – e mi toccò sul braccio per farmi svegliare e partire. E quando io ero già alla porta, mi corse dietro per dirmi di comprargli delle mele in composta.
[…]
Ebbene nel pieno della malora e che la vita m’era diventata insopportabile al Pavaglione dove non potevo far mezzo passo senza dar nel naso in qualcosa che mi ricordava Fede, la ruota diede un giro e io ebbi un colpo di fortuna, il primo in vent’anni ch’ero al mondo. I nostri zii di Mombarcaro, coi soldi che non sapevano più dove metterli e non buoni a passare il resto della vita a goderseli da signori, aprirono una censa anche a Monesiglio e, per chiamarne un altro, chiamarono mio fratello Stefano da primo garzone. Stefano non aspettava altro che lasciare la terra che tanto era diventata troppo bassa per la sua schiena e io era il mio sogno tornarmene a casa a farla andare io.
Feci fagotto e salutai bene, e meglio che tutti gli altri la padrona. Poi dopo non mi voltai più, neanche là dove si comincia a calare da Benevello e si perde la vista del Pavaglione; i quasi tre anni che ci avevo speso me l’ero già dimenticati, quasi che fossero un’elemosina.
Ho fatto quel ritorno come la cosa più bella della mia vita. Era la mia vera festa, e ad Arguello mi fermai all’osteria, comandai una bottiglia di moscato e me la bevetti tutta per festeggiarmi.
Beppe Fenoglio, La malora