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Primavera di bellezza – Beppe Fenoglio

Beppe-Fenoglio-Primavera_di_bellezza“Primavera di Bellezza” è il terzo ed ultimo libro pubblicato dallo scrittore prima della morte; fu redatto per scelta dell’autore in lingua inglese e dato alle stampe nel 1959 vincendo il premio Prato.
Rielaborazione parziale di alcune parti della leggenda del partigiano Johnny, il libro può essere considerato una sorta di ‘romanzo di formazione’ nel quale un gruppo di ventenni, tutti allievi ufficiali del Regio Esercito, prende coscienza della realtà nell’Italia del 1943, anno cruciale e denso di avvenimenti, uno dei periodi più bui della storia dell’esercito italiano che conduce  Fenoglio ad un’amara considerazione ripresa in un altro suo romanzo (“Una questione privata”): «C’è da ringraziare l’8 settembre per aver permesso all’Italia di constatare che schifo era il suo esercito, che vergogna i suoi ufficiali, quelli con le sciabole e gli stivali, quelli a cui dovevi cedere il passo per strada, quelli che ballavano con le donne più belle, quelli che ridevano sotto i baffi a sentire i nostri discorsi intellettuali. L’8 settembre è stato il giudizio. […] Ognuno ha pensato a sé, a casa sua, a sua madre, alla puttana sua. Anch’io. È inutile contarci balle, d’ora innanzi non potremo né dovremo contarci più balle […]». 
Il romanzo mette in risalto tre momenti particolari: il primo narra le vicende della vita quotidiana degli ufficiali istruttori, ovvero l’esperienza umiliante e morbosa della vita militare; il secondo lo sbandamento dell’esercito in corrispondenza degli avvenimenti dell’8 Settembre 1943, data vissuta in modo drammatico in una caserma della capitale romana, l’ultimo il ritorno del protagonista in Piemonte.
Nella parte conclusiva del romanzo Johnny,  giunto nei pressi di casa, si unisce a una banda di soldati che non hanno aderito alla Repubblica Sociale. Qui si evince il riscatto morale, sia del protagonista che di buona parte dell’Italia, attraverso la scelta della lotta partigiana che eleva i combattenti dal punto di vista etico in quanto libera e individuale. 
A differenza dei capitoli precedenti, caratterizzati da toni sarcastici e da un senso di desolazione, in questa ultima parte che narra la Resistenza lo stile diviene asciutto e drammatico, carico di positiva tensione civile, senza tuttavia derive retoriche, celebrative o assolutorie: i Partigiani sono descritti per ciò che essi sono e furono, persone normali con normali difetti ma con il pregio di aver fatto una scelta coraggiosa dall’esito tutt’altro che scontato.

Da leggere insieme a “Il sergente nella neve” ed ai libri di Primo Levi per capire cosa è stata veramente la seconda guerra mondiale per gli italiani.

 

Fenoglio è uno di quegli scrittori che lasciano parlare i fatti, che curano molto la regia e il montaggio della narrazione (…)Tendono, insomma, a trasformare la cronaca in poesia.
Eugenio Montale

(*)To the girl 
– in the picture torn asunder – 
combed her raven hair, 
in a meadow by St-Stephen, 
with the fabulous comb 
of gold and tortoise-shell Egyptian

Incipit:

 

Insensibile al freddo mordace, Johnny fissava vacuamente lo scarico della latrina. Si riscosse all’arrivo di un compagno, ciabattante, malsano, terrone. Lo scansò a testa bassa e filò via rasentò il muro sgocciolante,
orientandosi sull’alone funereo della lampada della sua camerata. Rivide il distretto, quel lercio maresciallo nel primo ufficio, che portava l’uniforme come una camicia da notte, i cassetti della scrivania pieni di omaggi e pedaggi in viveri e tabacco. Quindi il colonnello comandante, nella sala visite: in perfetta divisa, calzava sotto i gambali fruste pianelle di marocchino. Batté il piede per richiamare l’attenzione dello scritturale e decretò: « …esimo fanteria. Battaglione d’istruzione. Moana.» Johnny era alto e asciutto, anzi magro, negli occhi il suo punto di forza e di bellezza. Al momento della chiamata alle armi si trovava a metà degli studi per diventare professore di lingua e letteratura inglese. A ribattezzarlo Johnny era stata l’insegnante d’inglese, in terza ginnasio; il nome era subito entrato nell’uso dei compagni di scuola, poi dei suoi di casa e infine di tutti nella sua città.

 Scavalcato un arginello, gli appari l’acqua; stagnava, profonda e muta, quasi solida nella sua immobilità e nel modo con cui combaciava con l’altra riva, un arenile ammiccante sotto il sole. Da una macchia al limite della sabbia un misterioso uccello mandò il suo verso spaventato e cattivo, ultimo. Nel silenzio che seguì, Johnny si concentrò tutto nell’acqua: era sorella dell’acqua del fiume che lo aveva allevato, quella dei suoi solitari bagni mattutini, dove e quando la millimetrata immersione gli procurava una pungente lunga voluttà quale nessuna donna ancora aveva saputo regalargli. Stremato da quell’eccesso di libertà e di oblio, dovette appoggiarsi al tronco di un pioppo; sentì la scorza tenera e tiepida, non udì la tromba lontana suonare il cessate il fuoco. Questa del fiume era la realtà, il sogno morboso era l’esercito italiano, la guerra che esso stava disastrosamente perdendo, il corso di addestramento che si teneva a Moana…

Cap. IX
« Oh, to be at school now, (Essere a scuola adesso.)» sospirò Johnny, imitando Browning. Il suo desiderio correva al liceo; l’università non l’amava, poteva anzi dire di odiarla, proprio per aver troppo amato il liceo.
Era una bella classe, e fu magnifica nella settimana che precedette le vacanze natalizie del 1939.
L’occhialuto professor Corradi salì sulla cattedra sorvegliata dalla grinta brunita di Mussolini e dall’immagine del re, acidamente paterna. « Poiché siamo irrimediabilmente arretrati col programma, vi anticipo che salteremo a piè pari Alfredo Oriani e D’Annunzio lo ridurremo allo stretto necessario. »
Le ragazze rabbrividirono: passasse per Oriani, ma come presentarsi all’esame di stato con mezzo D’Annunzio? Corradi agitò la bionda mano paffuta. « Signorine, per favore, non vi affannate. O io mi sbaglio di grosso o non ci sarà esame di stato. La maturità classica vi verrà offerta su un piatto di piombo. Per gli dèi d’Omero, ragazze, smettetela di squittire. Il gentiluomo alle mie spalle, in alto a destra, si appresta a combinare uno scherzetto per effetto del quale dovremo tutti occuparci di cose ben più importanti dell’esame di stato. Subito dopo questo scherzetto io sparirò dalla circolazione civile e un uomo vecchio o comunque inabile alle fatiche di guerra siederà al mio posto su questa nobile cattedra e parlerà ai vostri successori delle grandezze e miserie della letteratura italiana. »
Johnny guardò avanti, alla forte nuca forforosa di Arduino nel primo banco, vestito di nero, il bastone appeso allo scrittoio, la gamba anchilosata fuori tutta, riversa nel breve passo tra fila e fila di banchi. Arduino non si voltava mai indietro, ma Johnny poteva ugualmente indovinare la sua ironia per quei vani accoramenti antifascisti, vedere il sorriso che gli allargava il volto tutto mite e gli stringeva gli occhi azzurri. Non era fascista, Arduino, ma nazista: Mussolini contava poco per lui, e unicamente per la sua qualità di alleato, deboluccio, di Hitler; le sue speranze erano le speranze tedesche, le sue vittorie quelle tedesche, tedeschi i suoi dolori e lutti, benché finora non ne avesse provati e fosse pienamente convinto che non gliene sarebbero toccati mai. Era tremendamente, gloriosamente solo, tutta la classe schierata con Johnny, antifascista e tedescofoba. Il professor Monti, il nuovo insegnante di filosofia, in capo a una settimana aveva preso Johnny in disparte. « Sei stato abilissimo, hai compiuto un vero miracolo. Perché è incontestabilmente un miracolo creare una maggioranza anglofila. »

Così Arduino era solo, ma con lui stavano Varsavia e Narvik, gli Stukas e gli U-boote, e quella ferrata compagnia cresceva giorno per giorno, a ogni edizione di giornale e radiotrasmissione. Ma Arduino taceva sempre e sorrideva nel vuoto. Si incastrava di tre-quarti nel suo banco consacrato, appendeva il bastone, depositava la gamba nel passaggio e sorrideva. Magliano, il contadino-studente, ciecamente devoto a Johnny e alla causa democratica, si picchiava la rossa faccia coi ditoni spuntati. « Arduino ha torto, » ripeteva Johnny, « e tu abbi pazienza. »

« Pazienza!? »
« Noi difettiamo proprio di pazienza. Le democrazie invece abbondano ed eccellono in pazienza, e invariabilmente trionfano con la pazienza. Abbi pazienza anche tu. » Al finis Arduino usciva sempre ultimo: ritirava la gamba allo scalpitante esodo dei compagni e sorrideva, a occhi bassi. Essi lo sogguardavano appena, i perdenti. Poi Arduino raccoglieva le forze e si trascinava fuori. I professori lo trattavano con estremo riguardo; era uno sventurato ragazzo e uno studente notevole, con grossi numeri per la chimica. Le compagne lo salutavano oblique e affettuose, perché era nemico di Johnny e della maggioranza e adoratore di Hitler, e un ragazzo disgraziato per la vita, e aveva occhi belli e cavallereschi.
Un giorno però -mancava una settimana a Natale- in un punto dell’Atlantico del Sud tre incrociatori inglesi incocciarono la corazzata tascabile tedesca « Graf von Spee ». Arduino sorrise: divoratore di tutte le pubblicazioni militari germaniche diffuse in Italia, sapeva che la Spee era nettamente superiore a quegli altri in velocità e gittata delle artiglierie. E sorrideva, opponendo la sua nuca rocciosa ai marosi di speranze che i compagni-nemici spingevano avanti. Il professor Monti spiegava inutilmente Bergson. Bergson, Le Rire, chi riderà?
Mezzogiorno venne, seguì un pomeriggio di passione. Johnny corse sulla collina e ci vagò fino a vespro, sognando vivendo dirigendo quella battaglia navale a migliaia di leghe di distanza, materialmente vedendo gli squarci che le granate inglesi aprivano nel demoniaco scafo tedesco, finendo mortalmente stanco e quasi indifferente.
A sera, la radio italiana informò, con un certo cordoglio, che la Spee era stata duramente toccata e aveva dovuto rifugiarsi nel porto neutrale di Montevideo. « Voglio vederla uscire! » abbaiò Johnny. « Dovrà pure uscire, fra due o tre giorni. » La notte non chiuse occhio e l’indomani si presentò a scuola con una faccia devastata.
Magliano era già in aula, a circondar con altri Arduino, e questi non sorrideva più, ma si protendeva, per armarsene, verso il bastone incautamente deposto. « Te l’hanno eliminata la tua Graf von Spee! » urlò Magliano e Arduino si limitò a oscillare una mano per consigliare, impetrare pazienza. Ma ora lo impegnava Piana, un ragazzo dell’alto Piemonte, sempre spettinato e al verde, quadrato e dialettico. « Tu però devi ammettermi la sconfìtta anche nel caso che l’Uruguay conceda alla Spee il diritto di asilo, obbligando gli inglesi a riprendere il largo a mani vuote. Ammetterai la sconfitta? »
Arduino tornò a sorridere: la Spee dopo una sommaria medicazione sarebbe uscita in pieno giorno nell’estuario del Rio de la Plata, avrebbe in tre lampi affondato gli incrociatori inglesi alla posta e ripreso trionfalmente l’oceano.
Era impossibile seguire la lezione, star minimamente composti. Johnny aveva dolore nel cervello, in gola e nei polmoni. Si inclinò da un lato per un’occhiata ad Arduino nel primo banco; si dimenava anche lui, e gli si distillava un sudorino fra la lanugine sulla nuca, dove portava spesso una mano cerea. « Ma che avete stamattina? » scattò il supplente di matematica. « Contrariamente alla vostra radicata opinione io non sono affatto scemo, vedo bene che non mi prestate un grammo di attenzione, nemmeno di quell’attenzione simulacra… Basta, al prossimo caso punisco e punisco secco. »
L’intervallo venne accolto con vulcanico sollievo. Nel grande corridoio Arduino naturalmente si isolò, gravando tutto sul bastone stette sorridente e fisso al cielo azzurro solidificato dal freddo; tutti gli altri in un’unica compagine calorosa, ansimante. « Gli uruguayani mica combineranno scherzi, mica favoriranno i porci tedeschi? » si preoccupò Piana. Johnny fece crocchiare i denti e scappò via, lontano, oltre Arduino, inconsciamente invadendo il tratto di corridoio riservato ai professori. L’insegnante d’inglese stava emergendo dal piano inferiore, la donna che l’aveva ribattezzato Johnny e iniziato « to England and things English (All’Inghilterra e alle cose inglesi.) ».
« Rule Britannia, » gli bisbigliò, « Let’s wait and hope. (Aspettiamo e speriamo.) » Poi gli si avvicinò il preside. « Ma che ci fai qui, segregato dai tuoi compagni? Sei tutto stravolto, » e sorrise. Un roseo vecchietto, sempre in cravatta bianca, con una bella faccia socratica, con un debole per la storia sabauda e la metrica latina; mezzo fascista, poiché questo sembrava essere il piacere del re.
Il governo uruguayano si lavò le mani, la Graf von Spee uscì nell’estuario e si autoaffondò, il capitano Langsdorf si fece saltare le cervella. Johnny impallidì e ripiombò sfinito sul banco, mentre Magliano assaltava Arduino in un parossismo di felicità e furore.
Anche le ragazze furono prese in quel vortice: prillavano, acclamarono e schernirono. Lalla premette sulla spalla di Johnny e gli disse in un soffio: « Cominci a vincere, dream-boy. »
Johnny riaprì gli occhi per vedere Arduino liberato da quell’assedio vertiginoso; era intervenuto il bidello, ora avvertiva del preside in ispezione nel corridoio e dell’imminentissimo ingresso del professor Corradi. Arduino si era abbandonato coi gomiti sullo scrittoio e muti singhiozzi gli scuotevano la vasta debole schiena. Johnny richiuse gli occhi. « Great God, I felt I could kill him! (Gran Dio, ho sentito di poterlo uccidere!) » Corradi entrò al suo modo irruente e svagato, il capoclasse gli presentò la scolaresca nel più puro stile littorio. Dalla cattedra il professore considerò quello speciale attenti, gli sguardi accesi, i petti ondanti. Disse: « Per Giove, ragazzi, voi mi fate sentire come il comandante dell’incrociatore Exeter. »
Sei mesi dopo la scuola finì e furono tutti maturi senza esame di stato. Posarono per il gruppo fotografico, poi il preside li fronteggiò. « Così avete terminato, ragazzi, avete alle spalle anche il ginnasioliceo. Mi domando se a voi paia incredibile come pare al vostro preside e ai vostri professori. Ma forse comprendete solo adesso quanto belli ed importanti siano stati questi otto anni.
Sarà probabilmente la ridicola illusione di un vecchio e sentimentale preside di liceo, ma penso che non vi sembrerà altrettanto bello ed importante il ciclo nel quale state per addentrarvi, i più all’università, alcuni nelle accademie militari. Ma ci son cose all’orizzonte, cose impendenti, che sicuramente riempiranno tutta la vostra giovinezza e… e io non dubito, ragazzi, che voi tutti vi farete onore: a voi stessi, massimamente alla patria, e anche alla vostra vecchia scuola. »
Una settimana dopo si era in guerra. « Italy at her falsest against Britain at her truest. (L’Italia nel suo momento più falso contro l’Inghilterra nel suo momento più vero.»

Cap. XV
A mezzogiorno era sul dorso delle alte colline. A sinistra le Alpi ergevano le loro grandi spalle nude, a destra l’occhio dominava una vallata con fiume, lo stesso che più avanti bagnava la sua città: brillava pacatamente sotto il sole discreto ma fermo e sulle acque trascorreva un percettibile brivido di postuma felicità estiva. Immediatamente si amareggiò di non aver pensato alla valle, sarebbe stato estremamente simpatico far cammino col fiume, costeggiandolo fantasiosamente; ed era un itinerario sicuro, bastava girare al largo dai ponti. Per più di due ore era salito di traverso, per sentieri e fra macchioni, ma da un pezzo si era messo per la strada maestra, vuota e tranquilla all’infinito. Camminava di buon passo e senza fatica sulla cresta e procedendo si rendeva sempre più conto che riconquistare la casa significava perdere il Paese. « Faith, » pensò, « I’m loth to get out like this, (Davvero mi ripugna uscirne così.)» ma poi scrollò le spalle: « Literature and love-making will make me forget the whole affair. (La letteratura e l’amore mi faranno dimenticare tutta la faccenda.)»

Exciplit
« È finita, » riprese Modica. « Da questo momento ognuno può fare la sua strada.
Vediamo. Tu, Johnny, eri già sulla strada per casa. Fa’ conto di aver perduto una settimana per un motivo qualsiasi. »
Johnny non disse né sì né no.
« Tu, Sciolla, abiti a Torino. Basta ti trovi un paio di stracci borghesi e anche tu puoi considerarti a casa. »
« Sì, e porterò con me Cattadori e Coromer. A casa mia faranno il bagno, darò loro un vestito decente e una buona cena e poi li metterò sul treno per casa. » Cattadori era di Saronno, Coromer veronese. « Adesso nelle stazioni dovrebbe essere meno pericoloso che nei primissimi giorni, adesso sorveglieranno meno. »
« E tu che farai, sergente? »
« Non preoccupatevi per me. Io mi sistemerò come bracciante in qualche fattoria. Non su queste colline, ma nemmeno troppo lontano. Farò il bracciante e tirerò avanti fino alla fine. Mi sentirò inferiore a uno sputo ma tirerò avanti. Vedete, ora non me ne importa più niente di rivedere la mia Sicilia, ma tra qualche giorno o settimana me ne importerà di nuovo. »
Il bosco bruiva, ed era un fracasso in confronto al mostruoso silenzio di Garisio.
Dopo, chissà quanto dopo, Coromer ripeté: « Povero tenente Geo, è lui che ci ha salvato la vita. »
« E non poterci sdebitare, » si lamentò Sciolla.
Allora Johnny disse: « Un modo ci sarebbe, di ringraziare Geo e tornarcene a casa senza sentirci troppo inferiori a uno sputo. Aspettarli al ritorno e fargliela pagare in parte. »
Modica assentì immediatamente e senza eccitazione, Cattadori e Coromer non batterono ciglio, ma Sciolla si turbò più del necessario. « Un’imboscata? Un’imboscata di noi cinque a centinaia di tedeschi? Ragazzi, vi par poco? Non dico che non la si possa fare… »
« La dobbiamo fare, » sillabò il sergente con gli occhi bassi.
« D’accordo, ma dove la si fa? Bisogna pure prepararla in un dato posto, e se poi i tedeschi passassero da un’altra parte?… »
« Sulla strada di Moana, » precisò Johnny.
« Ma chi ti dice che passeranno di lì? »
« Lo dico io, » interloquì Nino. « Passeranno di lì per forza. Un’altra strada non c’è che porti una colonna come quella. »
« Tu, Nino, puoi andartene anche subito. »
« Io vengo con voi, » rispose il ragazzo. « Non è per te, ti garantisco che un’imboscata è il peggior lavoro di questo mondo. Da’ retta, vattene a casa, tu che hai la fortuna di averla a due ore di cammino. »
« Ci andrò subito dopo. Stanotte farò un’improvvisata a mia madre. Ma lei non saprà mai che io torno dall’aver fatto un’imboscata. »
Cattadori si strinse al petto il mitragliatore. « Si faccia, ma scegliamo un posto sicuro: non tanto per noi quanto per la popolazione; ho già la nausea, io, delle case bruciate. »
Si avviarono a est e prima di uscire dal bosco passarono sul rovescio del crinale per eludere i potentissimi binocoli dei tedeschi. In due ore di marcia volutamente lenta riuscirono sulla strada per Moana, a un paio di chilometri a valle di Garisio. In quel tratto non c’erano presenze umane, né stabili né passeggere.
All’intatto campanile di Garisio scoccarono le tre.
Il posto fu presto trovato. Dopo una curva a gomito la strada faceva uno slargo delimitato da un risalto di tufo sfruttabile come parapetto. Una macchia di pini e ginepri schermava la posizione da destra senza togliere del tutto la vista sulla strada.
Immediatamente dopo quel parapetto c’era uno scoscendimento calcareo verso un vallone tortuoso e cupo. Il sergente studiò particolarmente il breve dirupo e disse: « A cose fatte scivolate giù svelti ma con attenzione. Slogarsi una caviglia è facile e chi si ferma è spacciato, quello paga per tutti. Non sarà il caso di precipitarsi giù. Tenete presente che i più interdetti e spaventati saranno loro, i tedeschi. »
Johnny provò a stendersi dietro il parapetto e affiorarne con mezza testa: uno dopo l’altro ci si provarono tutti e tutti trovarono che l’esposizione era orribilmente diretta, ma nessuno propose di cambiar posto. Il sergente aggiunse: « L’ultimo camion. L’ultimo, intesi? Non ci si può confondere, abbiamo visuale su tutta la discesa. »
Johnny si calò nel vallone e fumando un’ultima sigaretta lo esplorò per un centinaio di metri. Se ne impresse in mente il fondo, i meandri, gli intoppi della vegetazione rachitica e maligna; dopo una brusca svolta a sinistra il vallone sfociava in un campo aperto subito confinante con un castagneto. L’ultimo pericolo era sul campo, spazzabile con pronte mitragliatrici dalla strada, ma nel castagneto era la piena salvezza, una gioia amara e una dolce stanchezza. « See you later, wood. (Arrivederci, bosco.)»
Il sole tramontò e fu enorme, abissale la sua perdita. Lo rimpiazzò un vento forte e sonoro sotto il quale le colonne di fumo sopra Garisio presero a tentennare e stemperarsi.
Cattadori disse: « Perdonate, ma debbo farlo. » Si voltò su un fianco e orinò, il liquido sfrigolò sul calcare.
Si inserì nel vento un frastuono di motori ma la strada rimaneva in ogni punto deserta.
« L’ultimo camion, » disse Johnny.
E Cattadori del suo Breda: « Purché non mi si inceppi. » Coromer chiese se poteva ancora accendersi una sigaretta, ma Modica non concesse.
« Può esserci benissimo tutto il tempo, ma non conviene più. » « Dovevo pensarci prima, » riconobbe il veneto.
Infatti scendevano.
« L’ultimo camion, » ridisse il sergente.
« Purché non mi si inceppi dopo i primi colpi. »
Il rombo dei motori era infinitamente più tremendo dello schianto dei cannoni della mattina, a tutti stavano rizzandosi i capelli in testa, infissi come aghi, con una gelida vitalità in punta e alla radice.
Sbucò un’autoblindo, passò velocissima. Nino scivolò sul ventre e dovette uncinarsi a un piede di Coromer che imprecò. Transitò il primo camion, stracarico di uomini. Un secondo, e trainava un cannone a tiro rapido. Un terzo camion e un quarto, quest’ultimo aveva a bordo delle macchie biancastre, indubbiamente bestiame predato. Passò un quinto camion, gremito come i primi, quindi un’altra autoblindo e sul cofano stava legato Tito, testa in giù e piedi in su, il pellicciotto d’agnello era inzuppato di sangue.

Nino rantolò e si lasciò rotolare in fondo al vallone.
Al camion successivo non resistettero alla tensione e al dolore per Tito e con tutte le armi spararono alla massa larvale sul cassone. Due, tre si contorsero e afflosciarono, un quarto piombò sulla strada, come sbalzato da una mano titanica.
Si è inceppato! gridò Cattadori. Il camion aveva avuto un arresto e un impulso, come se il conducente avesse istintivamente frenato e poi il superiore in cabina gli avesse bestemmiato di riaccelerare.
Solo più Johnny e Modica restavano in linea. Johnny vide un altro camion affacciarsi cauto alla curva e poi un lampeggiamento da sulla cabina. La raffica non suonò più forte del frullo di un uccello, ma Johnny si abbatté con una coscia e il fegato trapassati.
«Johnny! » urlò il sergente già invisibile.
Il moschetto gli era volato via a qualche metro. Cercò di raggiungerlo strisciando ma dovette desistere per non svenire. Intanto sentiva i tonfi degli uomini che saltavano a terra dagli autocarri di coda. Qualcuno lo chiamava dal profondo del vallone, una voce già lontanissima.
Rifece un tentativo verso il moschetto ma progredì di pochi centimetri. Poi intese cricchiare i ginepri. Allora si tastò intorno per trovare una lastra o spuntone di roccia su cui fracassarsi la testa, ma la terra dov’era caduto era tutta soffice, addirittura elastica.
Il tedesco veniva – una faccia giovane e una vecchia divisa – e ora abbassava la machinepistol già puntata. Pensava di poterla fare un po’ più lunga e soddisfacente. Era arrivato a tre passi e ancora non rispianava l’arma.
Johnny percepì un clic infinitesimale. Girò gli occhi dal tedesco al vallone. Vide spiovere la bomba a mano del sergente Modica e le sorrise.

Beppe Fenoglio, Primavera di bellezza – Ed. Einaudi 

(*) «Alla ragazza della foto, tagliata fuori da questa storia, che si accarezzava i capelli con un pettine di tartaruga in un prato di Santo Stefano».
  
 Nel 1940 Fenoglio si iscrisse alla facoltà di Lettere dell’Università di Torino, che frequentò fino al 1943, quando fu richiamato alle armi e indirizzato prima a Ceva e poi a Pietralata (Roma), al corso di addestramento per allievi ufficiali. In questo periodo ha una intensa relazione d’amicizia con Lui l’incontra sul treno mentre va a Torino, lei è di quattro anni più giovane di lui ed è bellissima. Beppe se ne innamora follemente. Di questo amore non ricambiato resterà traccia nella dedica (in inglese) di Primavera di bellezza. (Giorgio Amico)