La scoperta fatta da Levi a nome di un’intera generazione di intellettuali italiani prende la fisionomia e la dimensione di uno shock, una sorta di trauma. Affidato alla sorella dello scrittore, ad un secondo narratore, dunque, e perciò tanto più oggettivo, è il racconto della sua prima visita ai Sassi: Matera appare come la scoperta di una colpa originaria, tanto più grave quanto meno ci si era resi conto della sua esistenza.
Il “Cristo” di Levi diveniva simbolo di un risveglio della coscienza intellettuale italiana, uno strumento nelle mani delle forze tese ad un riscatto del sottosviluppo meridionale.
Biografia:
Carlo Levi nacque a Torino nel 1902. Si laureò in medicina, ma nutrì svariati interessi culturali, dalla pittura (nel 1929 fece parte del gruppo dei pittori di Torino) alla letteratura. Nel 1931 aderì al movimento Giustizia e libertà dei fratelli Rosselli.
Venne arrestato per attività antifascista nel 1934. Dopo un secondo arresto, nel 1935 Levi fu confinato in Lucania, nel paese di Aliano. Qui venne a contatto con la realtà del Mezzogiorno d’Italia, a lui del tutto sconosciuta; e qui ambientò il suo romanzo più noto, Cristo si è fermato a Eboli (scritto durante la guerra e pubblicato nel 1945). Nel 1936 venne graziato e poté ritornare a casa. Nel 1939 si rifugiò in Francia; in seguito prese parte alla Resistenza.
Nelle grotte dei Sassi si cela la capitale dei contadini, il cuore nascosto della loro antica civiltà.
Chiunque veda Matera non può non restarne colpito tanto è espressiva e toccante la sua dolente bellezza.
Estratto:
“… arrivai ad una strada che da un solo lato era fiancheggiata da vecchie case e dall’altro costeggiava un precipizio. In quel precipizio è Matera. Ma di lassù dove ero io non se ne vedeva quasi nulla, per l’eccessiva ripidezza della costa, che scendeva quasi a picco. Vedevo soltanto, affacciandomi, delle terrazze e dei sentieri, che coprivano all’occhio le case sottostanti. Di faccia c’era un monte pelato e brullo, di un brutto color grigiastro, senza segno di coltivazioni né un solo albero: soltanto terra e pietre battute dal sole. In fondo scorreva un torrentaccio, la Gravina, con poca acqua sporca ed impaludata tra i sassi del greto. Il fiume e il monte avevano un’aria cupa e cattiva, che faceva stringere il cuore. La forma di quel burrone era strana: come quella di due mezzi imbuti affiancati, separati da un piccolo sperone e riuniti in basso da un apice comune, dove si vedeva, di lassù, una chiesa bianca: S.Maria de Idris, che pareva ficcata nella terra. Questi coni rovesciati, questi imbuti si chiamano Sassi, Sasso Caveoso e Sasso Barisano. Hanno la forma con cui a scuola immaginavo l’inferno di Dante. E cominciai anche io a scendere per una specie di mulattiera, di girone in girone, verso il fondo. La stradetta, strettissima, che scendeva serpeggiando, passava sui tetti delle case, se quelle così si possono chiamare. Sono grotte scavate nella parete di argilla indurita del burrone: ognuna di esse ha sul davanti una facciata; alcune sono anche belle, con qualche modesto ornato settecentesco. Queste facciate finte, per l’inclinazione della costiera, sorgono in basso a filo del monte, e in alto sporgono un poco: in quello stretto spazio tra le facciate e il declivio passano le strade, e sono insieme pavimenti per chi esce dalle abitazioni di sopra e tetti per quelli di sotto. Le porte erano aperte per il caldo. Io guardavo passando, e vedevo l’interno delle grotte, che non prendono altra luce ed aria se non dalla porta. Alcune non hanno neppure quella: si entra dall’alto, attraverso botole e scalette. Dentro quei buchi neri dalle pareti di terra vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi. Sul pavimento erano sdraiati i cani, le pecore, le capre, i maiali. Ogni famiglia ha in genere una sola di quelle grotte per tutta abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini e bestie. Così vivono ventimila persone. Di bambini ce n’era un’infinità. In quel caldo, in mezzo alle mosche, nella polvere, spuntavano da tutte le parti, nudi del tutto o coperti di stracci. Io non ho mai visto una tale immagine di miseria: eppure sono abituata, è il mio mestiere, a vedere ogni giorno decine di bambini poveri, malati e maltenuti. Ma uno spettacolo come quello di ieri non l’avevo mai neppure immaginato. Ho visto dei bambini seduti sull’uscio delle case, nella sporcizia, al sole che scottava, con gli occhi semichiusi e le palpebre rosse e gonfie; e le mosche gli si posavano sugli nocchi, e quelli stavano immobili, e non le scacciavano neppure con le mani. Sì, le mosche gli passeggiavano sugli occhi, e quelli pareva non le sentissero. Era il tracoma. Sapevo che ce n’era quaggiù: ma vederlo così nel sudiciume e nella miseria è un’altra cosa. Altri bambini incontravo, coi visini grinzosi come dei vecchi e scheletrici per la fame; i capelli pieni di pidocchi e di croste. Ma la maggior parte avevano delle grandi pance gonfie, enormi, e la faccia gialla e patita per la malaria. Le donne, che mi vedevano guardare dalle porte, mi invitavano ad entrare: e ho visto, in quelle grotte scure e puzzolenti, dei bambini sdraiati in terra, sotto delle coperte a brandelli, che battevano i denti dalla febbre. (…) Le donne, magre, con dei lattanti denutriti e sporchi attaccati a dei seni vizziti, mi salutavano gentili e sconsolate: a me pareva, in quel sole accecante, di essere capitata in mezzo a una città colpita dalla peste. Continuavo a scendere verso il fondo del pozzo, verso la chiesa, e una gran folla di bambini mi seguiva, a pochi passi di distanza, e andava mano a mano crescendo. (…) Eravamo intanto arrivati al fondo della buca, a Santa Maria de Idris, che è una bella chiesetta barocca, e alzando gli occhi vidi finalmente apparire, come un muro obliquo, tutta Matera. Di lì, sembra quasi una città vera. Le facciate di tutte le grotte, che sembrano case, bianche e allineate, pareva mi guardassero, coi buchi delle porte, come neri occhi.”
Carlo Levi, da “Cristo s’è fermato ad Eboli” (1945)