Menu Chiudi

Cesare Pavese – Il sentiero dei nidi di ragno

Cesare Pavese, Italo CalvinoIn appendice alla scheda sul romanzo “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino, riportiamo la recensione scritta da Cesare Pavese il 16 ottobre 1947; pubblicata su «L’Unità» di Roma il 26 ottobre 1947. E ripresa nel volume, curato da Italo Calvino, La letteratura americana e altri saggi.
Ringraziamo Maria Vittoria Lollobrigida per l’invio dell’allegato.
 

IL SENTIERO DEI NIDI DI RAGNO

Di Cesare Pavese [1]

A ventitré anni ltalo Calvino sa già che per raccontare non è necessario « creare i personaggi », bensì trasformare dei fatti in parole. Lo sa in un modo quasi allegro, scanzonato, monellesco. A lui le parole non fanno paura ma nemmeno gli fanno girare la testa: fin che hanno un senso, fin che servono a qualcosa le dice, le snocciola, le butta magari, come si buttano i rami sul fuoco, ma lo scopo è la fiamma, il calore, la pentola. Ormai di scrittori che puntino sui grossi personaggi come usava una volta, non ce n’è quasi più. Cambia il mondo. Poveretto chi è rimasto coi nonni. Ma poveraccio, disgraziato, chi dietro ai grossi personaggi « che facevano concorrenza allo stato civile » ha mollato anche i fatti, le cose di carne e di sangue, e brucia incensi di parole in non si sa che cappella privata.

Calvino è nato al raccontare in mezzo alla guerra civile. Questi i suoi fatti, le cose di cui fa parole. Se diciamo che questo Sentiero dei nidi di ragno (Einaudi, I 947), bocciato al concorso Mondadori e vincitore di quello di Riccione, è il più bel racconto che abbiamo sinora sull’esperienza partigiana, nessuno sarà troppo commosso. Non ce ne sono stati altri. Diremo allora che l’astuzia di Calvino, scoiattolo della penna, è stata questa, di arrampicarsi sulle piante, più per gioco che per paura, e osservare la vita partigiana come una favola di bosco, clamorosa, variopinta, « diversa ».

Un ragazzo del carrugio, sboccato e innocente, cencioso e maligno, fratello di una prostituta e ruffianello di tutti i volenterosi di passaggio, vien messo su contro i tedeschi e ruba a un marinaio, ch’è in camera con la sorella, la pistola. Tutto nasce di qua. Pin, che dei grandi si fa beffe, vùole tenersi la pistola e la nasconde tra i « nidi di ragno », un posto che sa lui. I tedeschi lo interrogano, lo mettono in carcere – una gran villa dentro un parco, – lui scappa col partigiano comunista Lupo Rosso, incontra il partigiano solitario Cugino, vanno insieme al campo del distaccamento tra i monti, dove Pin conosce i tipi più strani, tutti storti, tutti tocchi- il distaccamento è fatto apposta per loro – compreso un comandante, il Dritto, che è svogliato e va cercando chi lo liberi o l’ammazzi. C’è il falchetto Babeuf, c’è la moglie del cuoco trotschista, ci sono i quattro calabresi. Il Dritto amoreggia con la moglie del cuoco, succede una disgrazia, prende fuoco al fienile, e devono dislocarsi.

Dal comando di brigata interviene l’inchiesta: comandante Ferriera e commissario Kim. Intanto c’è il rastrellamento e tutti corrono a combattere, solo il Dritto non vuole saperne e resta nel mattino deserto, sotto gli occhi di Pin, a fare l’amore. I partigiani sgombrano la zona, il Dritto è chiamato senz’armi al comando per la resa dei conti, Pin scappa di nuovo in pianura, ai suoi nidi di ragno, donde Pelle, un partigiano traditore, gli ha intanto rubato la pistola marinata. Ma Pin la ritrova dalla sorella, le fa una scenataccia, e nella notte incontra di nuovo il Cugino, l’odiatore delle donne, e se ne vanno insieme discorrendo sotto un brillio di lucciole.

Fare clic per scaricare il documento originale

Articolo Cesare PaveseC’è qui dentro un sapore ariostesco. Ma l’Ariosto dei nostri tempi si chiama Stevenson, Kipling, Dickens, Nievo, e si traveste volentieri da ragazzo. Quello schietto e geloso abbandono all’incalzare di eventi e catastrofi, di spettacoli e di visi noti che faranno la smorfia o il sorriso previsti, che saranno maschere cosi fedeli alla loro natura da colpire di perenne stupore, quella schietta e complicata ingenuità dei poemi, può ritrovarsi ai giorni nostri solamente dentro un cuore di fanciullo. Non importa se il fanciullo di Calvino dice « puttana » e sa cos’è, bercia canzoni da bordello e potrebbe magari ammazzare qualcuno.
Non ha legge né madre, c’è la guerra, la gente si ammazza e non è colpa di Pin tutto questo. Calvino racconta dei fatti, e questi fatti hanno radici, consistenza, sono groppi di carne e di sangue; a rimuoverli, e sia pure con amore di parole, spiccia il sangue, si scopre la piaga, si sente il fetore di un mondo in cancrena. Qualcuno lo dirà, ma non è ancora questo che conta.
Malgrado il carrugio, malgrado il sentore di chiasso e di feccia, la giornata di Pin ha una grande purezza; scontrosa sboccata maligna come trascorre, è tutta fresca, baldanzosa di scoperte, di gesta, di onore, proprio come la giornata di un Astolfo e di un Jim Hawkins.

 E qui si chiarisce quel che dicevamo in principio. Guai se Calvino avesse fatto personaggi. Un sicuro istinto gli ha fatto ridurre le sue figure, non diremo a macchiette che suona offensivo, ma a maschere, a « incontri », a burattini. Tutti hanno un ticchio, nel Sentiero. Tutti hanno una faccia precisa, come altrettanti soldatini di carta da fogli diversi. Non fanno un gesto che non sia veduto con nitore, con parola corposa e insieme minuta, come appunto nel mondo cavalleresco, dove il gesto è tutto ma insieme va sperduto fra i tanti. Leggendo il Sentiero par di guardare certi fianchi di collina a gran distanza, dopo un giorno di vento, che si scorgono precisi e innumerevoli i tronchi, gli alberelli, i cubi netti delle case. C’è un perenne sentore di aria aperta in queste pagine, di campagna, di vista sicura, di mondo di Dio. Perfino le brigate nere, le terribili brigate nere, sono viste cosi dallo scoiattolo Pin: «Neri, ossuti, con le facce bluastre e i baffi da topo ». Qualcuno ha mai detto meglio?
E anche il capitolo IX, dove Calvino mette in scena i veri «adulti», il commissario e il comandante, è tenuto su questo rasoio. In esso si fa la critica delle formazioni, s’interpreta la guerra civile, si parla di storia e di riscatto umano. Ma la voce  che parla, del giovane Kim dallo sten al braccio, l’«arma smilza che sembra una stampella rotta», è ancora la voce di fiaba di chi fantastica « come faceva da bambino » e canzona se stesso ripetendo «A, bi, ci », « Sali e tabacchi, commissario » e « Kim … chi è Kim? »

La conclusione è quella solita. Trasformare dei fatti in parole non vuoi dire cedere alla retorica dei fatti né cantare il bel canto. Vuol dire mettere nelle parole tutta fa vita che si respira a questo mondo, comprimercela e martellarla. La pagina non dev’essere un doppione della vita, sarebbe per lo meno inutile; deve valerla, questo sì. Dev’essere un fatto tra i fatti, una creatura in mezzo alle altre. Per questa prima volta, a noi pare, Calvino c’è abbondantemente riuscito.

[1] Recensione al romanzo Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, Einaudi, Torino 1947. Scritta il 16 ottobre 1947; pubblicata su «L’Unità» di Roma, 26 ottobre 1947. Una nota sullo stesso libro, firmata C. P., era apparsa su un «Bollettino d’informazioni culturali» ciclostilato, della Casa Einaudi (n.’ 9, 17 ottobre 1947).