Tra il febbraio e l’aprile del 1946 la Garufi scrive, a quattro mani con Pavese, il romanzo Fuoco grande. Un interessante esperimento letterario, due romanzi in uno, tra loro speculari (i capitoli dispari narrati da Pavese (Giovanni), quelli pari dalla Garufi (Silvia)).
Il romanzo rimane incompiuto a causa della stanchezza e delle discordanze tra gli autori (pavese orientato a costruire un’opera d’arte,la Garufi un romanzo psicanalitico). Ma infine edito nel 1959.
L’idea di pubblicare il libro Fuoco grande nasce dallo scrittore e amico di Pavese, Italo Calvino, il quale tentando di unire tutti i racconti in un volume unico,incontra tra i manoscritti di Pavese anche il testo di Fuoco grande.
Respiravo quel vento che veniva di lontano. Maratea era alle falde di un monte selvoso e bagnava le sue case al mare. Silvia era quel paese. Quante volte ne aveva parlato.
Estratto
Vuoi aiutarmi, Giovanni? – chiese a un tratto. Io non mi ero levato il mantello. Avevo ancora il bavero alzato. La guardai così come l’avevo ricordata salendo le scale e mi parve di non essere mai uscito da quella stanza. – Vuoi aiutarmi? – Non sorrideva più. Guardava a terra. Di là facevano baccano e riconobbi qualche voce. – Devo tornare a Maratea, – disse adagio. – Devo tornarci subito. Con te -. Mi guardò viva e dura. – Vuoi sapere il motivo? – La guardai senz’aprir bocca. – Mi terrai compagnia, – disse. – Mi dirai che cosa hai fatto in questi mesi. Poi mi disse di andarmene. – Partiamo domani alle sette.[…] Respiravo quel vento che veniva di lontano. Maratea era alle falde di un monte selvoso e bagnava le sue case al mare. Silvia era quel paese. Quante volte ne aveva parlato.
[…]
Le parole di Silvia alla rupe mi richiamavano adesso quell’antico pensiero, che non esiste paesaggio vuoto: dovunque è vissuto un ragazzo, dovunque lui ha posato gli occhi, si è creato qualcosa che resiste nel tempo e tocca il cuore a chiunque abbia negli occhi un passato. Mi tornò vivido un ricordo d’infanzia: un paesaggio come quello, sotto un cielo screziato, una brulla campagna autunnale, il mio paese. E pensai vividamente come da tempo non avevo più fatto, al ragazzo ch’ero stato. Mi chiesi se anche in me c’era quel sangue contadino e tenebroso che incupiva gli occhi di Silvia così spregiudicata e cittadina. Ero nato in campagna, questo sì, ma la mia campagna era qualcosa di fantastico e lieve, qualcosa di sognato in città che non mi aveva dato sangue. Ne ritrovavo ricordi remoti, quasi di là dalla coscienza, di là dal mio risveglio cittadino. In me il sangue s’era messo a schiumare soltanto in città, la mia prima passione erano stati gli amici, i compagni di scuola – avevo pianto e fatto a botte con loro – ne sa qualcosa anche Giorgio che poi divenne così fatuo e ragionevole. Prima di allora tacevo e attendevo, accoglievo negli occhi vigneti e colline, ma fin dall’inizio sapevo che il mio destino, la mia vita sarebbero stati in città, con altra gente, e avrei smesso il dialetto e salito scale e guardato da finestre su viali, come le finestre di tutte le Silvie che conobbi. Perché fin da ragazzo seppi sempre che avrei trovato una Silvia e pianto e fatto a botte con lei. Adesso mi pareva impossibile di aver mai creduto in un altro sguardo e in un’altra bocca, ma già nei giorni più sanguinanti di quell’estate m’ero accorto che chi l’aveva preceduta l’aveva soltanto annunciata. Sempre tra noi s’era creata quella discordia scattante e selvaggia, quella rabbiosa tenerezza, ch’è il rigurgito della campagna divenuta città. E adesso che credevo di aver vinto l’amplesso, di non essere più schiavo del sangue di lei né di nessuna, ecco che ritrovavo dei ricordi d’infanzia, di là dai viali e dalle case, dei ricordi fantastici e lievi, come di chi sogna un destino e un orizzonte che non è la collina o la nuvola ma il sangue la donna di cui nubi e colline non sono che un segno. E la Silvia che avevo strappato da me e soffocato, era invece con tutta la sua spregiudicata apparenza una cosa selvaggia di sangue e di sesso. Ciò – devo dire – mi fermò davanti alla scena della montagna lontana e mi riempiva di speranze inconfessate.
C. Pavese B. Garufi, da “Fuoco grande” (narrazione di Giovanni)