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Il compagno – Cesare Pavese

Il compagnoIl Compagno, uscito il 23 giugno 1947, segnalato per il premio Strega, a giugno dell’anno successivo fu insignito del Premio Salento (estate 1948)

Pavese in un commento introduttivo al romanzo scrive:

Il presente libro è la storia di un’educazione e di una scoperta. Come i giovani delle classi colte borghesi maturassero alla vita e alla storia negli ultimi anni del fascismo, ci è stato raccontato da molti. Resta a tutt’oggi da indagare come ci siano arrivati gli altri — i proletari e gli incolti. L’autore non s’illude di esserci riuscito, ma ha provato.

In questo romanzo, Pavese cerca di affrontare e di risolvere le contraddizioni profonde che emergono dal confronto drammatico della propria individualità con la realtà circostante, tramite un utilizzo diverso del suo materiale letterario. Il compagno infatti “interpreta più fedelmente di ogni altro scritto di Pavese, il suo desiderio di trovare finalmente sbocco nella vita politica per un’attività che lo radichi agli altri, ai tanti uomini semplici ch’egli ha fatto vivere nel romanzo”.

Era come avessi messo radici nel suo sangue. Il suo fianco era il mio. La sua voce era come abbracciarla.

Estratto

Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra. La notte che Amelio si ruppe la schiena sulla strada di Avigliana, ero andato con tre o quattro a una merenda in collina – mica lontano, si vedeva il ponte – e avevamo bevuto e scherzato sotto la luna di settembre, finché per via del fresco ci toccò cantare al chiuso. Allora le ragazze si erano messe a ballare. Io suonavo – Pablo qui, Pablo là – ma non ero contento, mi è sempre piaciuto suonare con qualcuno che capisca, invece quelli non volevano che gridare più forte. Toccai ancora la chitarra andando a casa e qualcuno cantava. La nebbia mi bagnava la mano. Ero stufo di quella vita.
Adesso che Amelio era finito all’ospedale, non avevo con chi dir la mia e sfogarmi. Si sapeva ch’era inutile andarlo a trovare perché gridava giorno e notte e bestemmiava, e non conosceva più nessuno. Andammo a vedere la moto ch’era ancora nel fosso, contro un paracarro. S’era spaccata la forcella, saltata la ruota, per miracolo non s’era incendiata. Sangue per terra non ce n’era ma benzina. Vennero poi a prenderla con un carretto.
Non mi sono mai piaciute le moto, ma era come una chitarra fracassata. Fortuna che Amelio non conosceva più nessuno. Poi si disse che forse scampava. Io pensavo a queste cose mentre servivo nel negozio, e non andavo a trovarlo perché tanto era inutile, e non parlavo più di lui con nessuno.
Pensavo invece, rientrando la sera, ai discorsi che avevo fatto con tutti ma a nessuno avevo detto ch’ero solo come un cane, e non mica perché non ci fosse più Amelio – anche lui mi mancava per questo. Forse a lui l’avrei detto che quell’estate era l’ultima e tra osterie, negozio e chitarra ero stufo. Lui le capiva queste cose.(…)

*
Io mi ero accorto ritornando a casa che preferivo viver solo piuttosto che Linda scordasse anche me. Mi faceva un piacere carogna pensarci. Se di colpo smettevo di uscire con lei, forse l’avrei mortificata e non mi avrebbe più scordato.

«Io mi ricordo ogni momento che ti ho vista» le dissi.
«Può darsi.»
Era come l’avessi già fatto. Mi tremavano i denti. «Da stanotte ho capito chi sei» dissi piano.
Lei mi prese per mano e diceva qualcosa.
«Dunque l’altr’anno non uscivi» le dissi.
Mi tenne il braccio e mi guardava brusca. «Cosa c’è?»
«Niente» le dissi.
«Ma perché fai questo? C’era Amelio, e hai detto ch’eri stata in montagna con lui. Quella sera che avete ballato nel portico…»
«Non si può dirvi una parola» mi fece. «Anche tu.»
Discorremmo così dei suoi anni passati, e mi disse molte cose e divenne malinconica. Dovevamo andare al cinema e non andammo. Ci comprammo le castagne arrostite e passeggiamo in riva al Po. Veniva notte, su quei corsi, e i lampioni erano accesi e avrei voluto che durasse sempre, perché adesso sapevo che l’idea di lasciarci e non rivederci più mi tagliava le gambe. Era come avessi messo radici nel suo sangue. Il suo fianco era il mio. La sua voce era come abbracciarla.

Cesare Pavese, da “Il compagno”