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La bella estate – Cesare Pavese

La bella estate“La bella estate”, pubblicato nel 1949, contiene tre romanzi brevi: “La bella estate”, (1940), il primo e più antico dei tre romanzi, intitolato originariamente “La tenda”, riprende per molti versi il tradizionale modello del romanzo di formazione, ma per offrirne una versione “rovesciata”. 

“Il diavolo sulle colline” (1948) e “Tra donne sole” (1949).

Ciascuno di essi potrebbe costituire un testo a sé stante, ad unirli è un’atmosfera di giovanile scoperta del mondo, il rapporto città/campagna, la frequente disillusione e il disagio che permeano i personaggi più deboli e più giovani, il desiderio e la fretta della trasgressione.
Un libro di piacevole lettura sia per la sua  semplicità che per la grande capacità di saper far parlare i fatti,  le persone, e i luoghi facendoli rivivere per quello che sono.

Le giornate passavano adagio, ma il freddo aiutava a starsene al chiuso, e Ginia in quella malinconia pensava che un’estate come l’ultima non l’avrebbe passata mai piú.


 Estratto: La bella estate

A Guido non osava pensare, e non sapeva come fare per rivederlo. Era convinta di aver perduto anche lui. Sono una scema, – pensò Ginia finalmente, – perché scappo sempre? Non ho ancora imparato a star sola. Mi vengano a cercare, se mi vogliono. Da quel giorno stette tranquilla e pensava a Guido senza commuoversi, e cominciò a fare attenzione a Severino che quando gli dicevano qualcosa, prima di rispondere guardava in terra e non dava mai ragione a chi aveva parlato: piuttosto stava zitto. Non era poi stupido, per quanto fosse un uomo. Invece lei finora aveva fatto come Rosa. Si capisce che la gente la trattasse come trattava Rosa. 
Non andò piú a cercare nessuno al cinema o alla sala. Si accontentò di camminare tutta sola per le strade e di andare qualche volta fino al centro. Era novembre, e certe sere prendeva il tram, scendeva ai portici, girava un momento e poi rincasava. Sperava sempre d’incontrare Guido, e tutti i soldati li guardava in faccia di sfuggita.Tanto per sapere, s’arrischiò una volta, col batticuore, davanti al caffè di Amelia e intravide molta gente ma lei no.
Le giornate passavano adagio, ma il freddo aiutava a starsene al chiuso, e Ginia in quella malinconia pensava che un’estate come l’ultima non l’avrebbe passata mai piú. Ero un’altra donna, – pensava, – è impossibile che fossi cosí matta. Mi è andata bene per miracolo .Che un altr’anno sarebbe tornata l’estate, le pareva incredibile. E si vedeva già per i viali, alla sera, sola e con gli occhi rossi, da casa al lavoro, dal lavoro a casa, nell’aria tiepida, come una ragazza di trent’anni. Il peggio era che il gusto di una volta a starsene quella mezz’ora sul letto al buio, non lo provava piú. Anche lavorando in cucina pensava allo studio, e le avanzava sempre tempo per guardare in aria.
S’accorse dopo, di aver trascorso in questo modo non piú di quindici giorni. Sperava sempre, uscendo dall’atelier, di trovare qualche novità sotto il portone, e che non ci fosse mai nessuno ad aspettarla le dava il senso di aver perduto la giornata, di essere già a domani, a doman l’altro, e di aspettare aspettare qualcosa che non veniva mai. Non ho ancora diciassette anni, -pensava, – ho tanto tempo.
[…]
– Sono venuta e lei non c’era, – bisbigliò Ginia.- 
Dammi del tu, – disse Guido, – questa sera ci diamo tutti del tu –
– E stato consegnato? – disse Ginia.- 
Sei stato consegnato, – disse Guido carezzandole con le dita i capelli. 
In quel momento alle spalle le accesero la luce, e Ginia lasciò cadere la tenda e fissò il quadro del melone.
Per mangiare, aspettarono che l’ambiente si scaldasse. A girare cosí col soprabito e le mani in tasca, pareva di essere al caffè. Rodrigues si versò da bere, e ne riempí altri tre bicchieri. – Non cominciare, -disse Amelia. Rodrigues disse che cominciare bisognava. Poi portarono il tavolo vicino al sofà, piano per non versare i bicchieri, e Ginia fece in tempo a sedersi sul sofà con Amelia. C’era del salame, della frutta, dei dolci, e due fiaschi. Ginia pensava se eran quelle le feste che Amelia faceva una volta con Guido, e glielo chiese, dopo aver bevuto un bicchiere, e quelli ridendo cominciarono a raccontarsi tutte le commedie che avevano fatto là dentro. Ginia ascoltava invidiosa e le pareva di esser nata troppo tardi e si dava della scema. Capiva che i pittori vanno trattati ridendo perché fanno una vita diversa dagli altri, tant’è vero che Rodrigues che non dipingeva stava cheto e masticava o, se diceva la sua, prendeva soltanto in giro. Guardava lei sotto sotto, malizioso, e tutta la rabbia perché Guido s’era divertito con Amelia, Ginia la covava contro di lui.- Non sta bene, – disse piagnucolosa, – raccontarmi queste cose a me che non c’ero.- Ma stasera ci sei, – disse Amelia, – divértiti. Allora a Ginia venne voglia, ma una voglia terribile, di esser sola con Guido. Eppure capiva di avere quel coraggio soltanto perché Amelia era seduta lí vicino. Diversamente, sarebbe scappata. Non ho ancora imparato a star tranquilla, – ripeteva. – Non devo commuovermi.
Poi gli altri accesero le sigarette, e gliene diedero una. Ginia non la voleva, ma Guido venne a sedersi accanto a lei e gliel’accese e le disse di non respirare. Gli altri due facevano la lotta sull’angolo del sofà. Allora Ginia saltò in piedi scostando le mani di Guido, posò la sigaretta e attraversò lo studio senza parlare. Alzò la tenda e si fermò in piedi nel buio. Dietro di lei parlavano come un ronzío lontano. – Guido, – bisbigliò senza voltarsi, e si buttò su quel letto, a faccia in giú.

Cesare Pavese, da “La bella estate”
Premio Strega 24 giugno 1950

In copertina un particolare di un quadro di Henri Matisse