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Lavorare stanca – Cesare Pavese

Lavorare stanca
Cesare Pavese pubblicò “Lavorare stanca” in due edizioni: la prima fu pubblicata nel 1936 e la seconda, quella definitiva, nel 1943.
Le poesie sono divise in sei sezioni tematiche. Ogni sezione ha un suo titolo e contiene diverse poesie.
Questo lo schema sintetico delle sei sezioni e delle poesie di ogni sezione:

Prima sezione Antenati: Poesie da n. 1 a n. 11
Seconda sezione Dopo: Poesie da n. 12 a n. 26
Terza sezione Città in campagna Poesie da n. 27 a n. 45
Quarta sezione Maternità Poesia da n. 46 a n. 55
Quinta sezione Legna verde Poesia da n. 56 a n. 62
Sesta sezione Paternità Poesia da n. 63 a n. 70

In una “antropologia dell`uomo solo”, il poeta rievoca la campagna dell`infanzia e la contrappone allo squallore della periferia cittadina, che suscita in lui angoscia e disgusto; all’uomo, per supplire allo “sgomento di vivere”, non restano altro che frettolosi incontri con l`altro sesso, ma anch’essi sono vissuti senza trasporto né dialogo affettivo.

“I Mari del Sud” è la poesia con cui si apre la raccolta intitolata Lavorare stanca. Il poeta la dedicò ad Augusto Monti (1881-1966), un insigne figura di docente antifascista del Liceo “Massimo D’Azeglio” di Torino, che con l’esempio e l’insegnamento esercitò una notevole influenza su molti giovani intellettuali torinesi che furono suoi allievi, come Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Giancarlo Pajetta, Massimo Mila.

(a Monti)

Camminiamo una sera sul fianco di un colle, 

in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo 
mio cugino è un gigante vestito di bianco, 
che si muove pacato, abbronzato nel volto, 
taciturno. Tacere è la nostra virtù. 
Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo 
– un grand’uomo tra idioti o un povero folle – 
per insegnare ai suoi tanto silenzio. 
Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto 
se salivo con lui: dalla vetta si scorge 
nelle notti serene il riflesso del faro 
lontano, di Torino. “Tu che abiti a Torino… ” 
mi ha detto “…ma hai ragione. La vita va vissuta 
lontano dal paese: si profitta e si gode 
e poi, quando si torna, come me a quarant’anni, 
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono”.
Tutto questo mi ha detto e non parla italiano, 
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre 
di questo stesso colle, è scabro tanto 
che vent’anni di idiomi e di oceani diversi 
non gliel’hanno scalfito. E cammina per l’erta 
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino, 
usare ai contadini un poco stanchi. 
Vent’anni è stato in giro per il mondo. 
Se n’ andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne 
e lo dissero morto. Sentii poi parlarne 
da donne, come in favola, talvolta; 
uomini, più gravi, lo scordarono. 
Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino 
con un gran francobollo verdastro di navi in un porto 
e auguri di buona vendemmia. Fu un grande stupore, 
ma il bambino cresciuto spiegò avidamente 
che il biglietto veniva da un’isola detta Tasmania 
circondata da un mare più azzurro, feroce di squali, 
nel Pacifico, a sud dell’Australia. E aggiunse che certo 
il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo. 
Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero
che, se non era morto, morirebbe. 
Poi scordarono tutti e passò molto tempo. 
Oh da quando ho giocato ai pirati malesi, 
quanto tempo è trascorso. E dall’ultima volta 
che son sceso a bagnarmi in un punto mortale 
e ho inseguito un compagno di giochi su un albero 
spaccandone i bei rami e ho rotta la testa 
a un rivale e son stato picchiato, 
quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi, 
altri squassi del sangue dinanzi a rivali 
più elusivi: i pensieri ed i sogni. 
La città mi ha insegnato infinite paure: 
una folla, una strada mi han fatto tremare, 
un pensiero talvolta, spiato su un viso. 
Sento ancora negli occhi la luce beffarda 
dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccìo. 
Mio cugino è tornato, finita la guerra, 
gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro. 
I parenti dicevano piano: “Fra un anno, a dir molto, 
se li è mangiati tutti e torna in giro. 
I disperati muoiono cosi “. 
Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno 
nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento
con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina 
e sul ponte hen grossa alla curva una targa-réclame. 
Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi 
e lui girò tutte le Langhe fumando. 
S’era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza 
esile e bionda come le straniere 
che aveva certo un giorno incontrato nel mondo.
Ma usci ancora da solo. Vestito di bianco, 
con le mani alla schiena e il volto abbronzato, 
al mattino batteva le fiere e con aria sorniona 
contrattava i cavalli. Spiegò poi a me, 
quando fallì il disegno, che il suo piano 
era stato di togliere tutte le bestie alla valle 
e obbligare la gente a comprargli i motori. 
“Ma la bestia” diceva “più grossa di tutte, 
sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere 
che qui buoi e persone son tutta una razza”. 
Camminiamo da più di mezz’ora. La vetta è vicina,
sempre aumenta d’intorno il frusciare e il fischiare del vento. 
Mio cugino si ferma d’un tratto e si volge: “Quest’anno 
scrivo sul manifesto: – Santo Stefano 
è sempre stato il primo nelle feste 
della valle del Belbo – e che la dicano 
quei di Canelli “. Poi riprende l’erta. 
Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio, 
qualche lume in distanza: cascine, automobili 
che si sentono appena; e io penso alla forza 
che mi ha reso quest’uomo, strappandolo al mare, 
alle terre lontane, al silenzio che dura. 
Mio cugino non parla dei viaggi compiuti. 
Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell’altro 
e pensa ai suoi motori. 
Solo un sogno 
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta, 
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo, 
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole, 
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue 
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia. 
Me ne accenna talvolta. 
Ma quando gli dico 
ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora 
sulle isole più belle della terra, 
al ricordo sorride e risponde che il sole 
si levava che il giorno era vecchio per loro. 
Cesare Pavese, I mari del sud
(prima poesia-racconto dell’opera poetica)