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Le poesie – Cesare Pavese

Cesare Pavese - Le poesie

Questa piccola antologia offre al lettore la possibilità di spaziare su un campo lunghissimo. Oltre alle celebri raccolte ‘Lavorare stanca’ e ‘Verrà la morte e avrà i tuoi occhi’ contiene la produzione giovanile, ancora acerba, dello scrittore.

«Nei versi di Pavese c’è un bisogno di forma che oltrepassa la forma, una necessità di canto che sopravanza il canto. Il culto tributato alla sua opera risponde a questa urgenza comunicativa, all’impellenza di un contatto con l’altro. Pavese chiama, e il suo appello ha sul lettore una presa immediata, emotiva. Ma non è appunto da una pulsione simile, dall’ancoraggio nel terreno del vissuto, che la letteratura trae la sua origine? Ripercorrere oggi questi testi significa perciò verificare la forza di una parola che forse rimanda al di là della poesia, ma senza cui la poesia non può esistere».

Valerio Magrelli

Ogni poeta s’è angosciato, meravigliato e ha goduto. L’ammirazione per un gran passo di poesia non va mai alla sua stupefacente abilità, ma alla novità della scoperta che contiene. Anche se proviamo un palpito di gioia a trovare un aggettivo accoppiato con riuscita a un sostantivo, che mai si videro insieme, non è stupore all’eleganza della cosa, alla prontezza dell’ingegno, all’abilità tecnica del poeta che ci tocca, ma meraviglia alla nuova realtà portata in luce.
3.v 9 ott.

Cesare Pavese, Il mestiere di vivere

Da: LE POESIE AGGIUNTE E APPENDICE

La finestra socchiusa contiene un volto
sopra il campo del mare. I capelli vaghi
accompagnano il tenero ritmo del mare.

Non ci sono ricordi su questo viso.
Solo un’ombra fuggevole, come di nube.
L’ombra è umida e dolce come la sabbia
di una cavità intatta, sotto il crepuscolo.
Non ci sono ricordi. Solo un sussurro
che è la voce del mare fatta ricordo.

Nel crepuscolo l’acqua molle dell’alba
che s’imbeve di luce, rischiara il viso.
Ogni giorno è un miracolo senza tempo,
sotto il sole: una luce salsa l’impregna
e un sapore di frutto marino vivo.

Non esiste ricordo su questo viso.
Non esiste parola che lo contenga
o accomuni alle cose passate. Ieri,
dalla breve finestra è svanito come
svanirà tra un istante, senza tristezza
né parole umane, sul campo del mare.

Mattino [9 -18 agosto 1940]

Da: LA TERRA E LA MORTE

Anche tu sei collina
e sentiero di sassi
e gioco nei canneti,
e conosci la vigna
che di notte tace.
Tu non dici parole.

C’è una terra che tace
e non è terra tua.
C’è un silenzio che dura
sulle piante e sui colli.
Ci son acque e campagne.
Sei un chiuso silenzio
che non cede, sei labbra
e occhi bui. Sei la vigna.

E’ una terra che attende
e non dice parola.
Sono passati giorni
sotto cieli ardenti.
Tu hai giocato alle nubi.
E’ una terra cattiva –
la tua fronte lo sa.
Anche questo è la vigna.

Ritroverai le nubi
e il canneto, e le voci
come un’ombra di luna.
Ritroverai parole
oltre la vita breve
e notturna dei giochi,
oltre l’infanzia accesa.
Sarà dolce tacere.
Sei la terra e la vigna.
Un acceso silenzio
brucerà la campagna
come i falò la sera.

Anche tu sei collina [30-31 ottobre 1945]


Da: VERRA’ LA MORTE E AVRA’ I TUOI OCCHI

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi [22 marzo 1950]

 Da: PRIMA DI «LAVORARE STANCA» 1923-1930

In [Le febbri di decadenza]

Per tutta l’esistenza
ti avrò, fragilità,
nella stanchezza ardente del mio sangue.

Mi sei venuta accanto
colla promessa viva di un’aurora,
sconvolgendomi il sangue
come un grande tesoro
che si potrà conoscere
e possedere fino a sazietà.
Racchiudevi un mistero di dolore
e di gioia profonda, sconosciuta.
Oh un attimo solo di te
e mi saresti stata per la vita
un ricordo di sogno.
Ma non ti sei svelata.
Hai saputo il tuo gioco.
Sei ritornata a un tratto in mezzo al mondo
rinascondendo in te
il segreto degli occhi arrovesciati,
della tua bellezza più grande,
dell’attimo che gioia e sofferenza
si fanno un solo brivido.

Mi hai strappate le lacrime dal cuore.

E da quel giorno buio
dinanzi al tuo ricordo
per tutta l’esistenza
dovrò soffrire ancora
la febbre del mistero che ho perduto.

Per tutta l’esistenza [12 agosto 1928]

Da: BLUES DELLA GRANDE CITTA’

Luci mute ingioiellano la notte
le collane, nei viali, dei lampioni.

La lunga macerante solitudine
del giorno vile tra le case altissime
si riaccende di tutto il mio sangue
e mi s’aderge agli occhi fino al cielo.
Luci bianche, nei viali di vertigine,
si snodano lontano e senza un suono,
senza un essere vivo.
Io sono solo in mezzo all’universo
di tutte queste luci.
Da ogni parte mi s’aprono nei viali le polveri azzurrine.
I ricordi vilissimi
tacciono per un attimo.
Ed il cielo è abbagliato, scomparso.

Domani, sotto il suicidio del sole,
riprenderà la vita solitaria.

Luci mute ingioiellano la notte [1° febbraio 1929]

Da: ESTRAVAGANTI SCELTE dicembre 1926 – agosto 1930

Come il lamento di un bosco,
come il trillo non udito di un usignolo,
si spande l’armonia
ed empie l’aria
e per l’aria ti va nelle orecchie
e nelle cervella e nel cuore.
Vibra vibra l’aria
commossa dal trillo dell’usignolo!
Poi possente completa
la melodia ti domina
e tu la domini
e tutti
gli atomi vibrano di gioia divina.

Poi quando saturo
di musica lo spirito riposa
come la terra che raccoglie un seme
germoglia e sboccia in mille
immense costruzioni di armonia.

Frattanto il trillo non era finito.

Come il lamento di un bosco [7 aprile 1928]

Da: Attorno a «LAVORARE STANCA» 1931-1940

 Torneremo per strada a fissare i passanti
e saremo passanti anche noi. Studieremo
come alzarci al mattino deponendo il disgusto
della notte e uscir fuori col passo di un tempo.
Piegheremo la testa al lavoro di un tempo.
Torneremo laggiù, contro il vetro, a fumare
intontiti. Ma gli occhi saranno gli stessi
e anche i gesti e anche il viso. Quel vano segreto
che c’indugia nel corpo e ci sperde lo sguardo
morirà lentamente nel ritmo del sangue
dove tutto scompare.
  

                              Usciremo un mattino, 

non avremo più casa, usciremo per via;
il disgusto notturno ci avrà abbandonati;
tremeremo a star soli. Ma vorremo star soli.
Fisseremo i passanti col morto sorriso
di chi è stato battuto, ma non odia e non grida
perché sa che da tempo remoto la sorte
– tutto quanto è già stato o sarà – è dentro il sangue,
nel sussurro del sangue. Piegheremo la fronte
soli, in mezzo alla strada, in ascolto di un’eco
dentro il sangue. E quest’eco non vibrerà più.
Leveremo lo sguardo, fissando la strada.

Ritorno di Deola, [marzo-aprile 1936]


Cesare Pavese, Le Poesie, Einaudi, 1998