I due volumi delle lettere ci rivelano la storia umana e intellettuale di Cesare Pavese. Un epistolario che si configura quasi come una sorta di «diario pubblico» e consegna al lettore l’autoritratto di un uomo immenso, intenso. Da leggere insieme al “Mestiere di vivere”.
Gian Maria Annunziata
C’è un personaggio, tra i tanti immaginati da Pavese, che non riesce a leggere libri; è la Clelia di “Tra donne sole”, che dice: “ho sempre l’impressione di mettere il naso negli affari degli altri… Mi sembra una cosa indecente. Come aprire le lettere degli altri…”
E noi, che siamo lettori incalliti e impenitenti, cosa facciamo? Apriamo i due corposi volumetti delle Lettere di Pavese e mettiamo il naso negli affari suoi, soltanto per conoscerlo meglio, però.
Le lettere che invia sono moltissime e la sua abitudine di conservarne i testi ci ha lasciato una traccia del percorso personale e professionale di uno dei più importanti scrittori della nostra letteratura.
Pavese scrive ai familiari e agli amici, alle donne di cui s’innamora, ai colleghi, ai collaboratori e agli editori; scrive di sé e di letteratura, del desiderio d’avere e di far libri; scrive gioiose e sofferte parole d’amore, espressioni di stima e d’affetto, ma anche aspri rimproveri e critiche feroci.
Leggendo lettere, cartoline e telegrammi, seguiamo la sua formazione e i primi successi letterari, l’attività di traduttore e consulente editoriale per la casa Einaudi, che nasceva e si affermava proprio in quel periodo di grandi difficoltà e di eccezionale fervore culturale, ma anche le vicende intime e il tragico evolversi dei suoi sentimenti. Ce ne viene il ritratto di uno scrittore stimato e apprezzato al quale si prospetta una carriera di successo e di un uomo schivo, inquieto e tormentato, che non riesce a sentirsi appagato e felice. Nella vita di Pavese manca qualcosa d’importante: non sappiamo cosa sia, ma possiamo immaginare che, in lui, accanto al luminoso genio letterario, si agiti una forza oscura e potente che gli vieta la felicità, lo spinge a cercare un bene introvabile e poi lo trascina via.
Il suo malessere è dissimulato da un lavoro frenetico, una fatica fisica e intellettuale che dà grandi risultati all’editoria italiana, ma lo prosciuga in breve tempo; questo disagio, nelle lettere, si manifesta in frasi che rivelano l’intenzione, un giorno, di darsi la morte.
Al suicidio pensa in più di una occasione e riflette più volte su quale sia il modo migliore per togliersi la vita. Un colpo di pistola? Troppo rumore e sangue. Lasciarsi annegare? Troppo scomodo ed esposto. Il veleno? Discreto e silenzioso.
Alla fine, quando è ormai deciso a non scrivere più, a non vivere più, fa la sua scelta e lascia il mondo.
Nell’inquietudine e nello sforzo di scrivere, ciò che sostiene è la certezza che nella pagina resta qualcosa di non detto.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Lettere
A Fernanda Pivano, Mondovì Breo
Roma, sabato 13 febbraio 1943
Cara Fernanda,
durante il viaggio ho pensato molto alle mie cose e mi sono accorto di non essere più un ragazzino, perché se fossi un ragazzino avrei goduto e sofferto molto e pensato bei pensieri e schizzato poesie. Invece ero solido e chiuso e ragionevole e cortese, come ai miei tempi mi pareva che fossero gli uomini fatti, e per questo li invidiavo molto. Che stupido. Fern, divento vecchio e, se penso a scrivere un romanzo, giro e rigiro su me stesso senza godermi né il romanzo né me stesso; se penso all’amore, faccio il conto dell’avvenire e della casa, e dei soldi e delle mie disponibilità. Fern, sono vecchio.
Anzi, mi sento padre. Di che cosa o di chi, non so bene, ma mi sento padre, responsabile e noioso e superato. Com’ero più mascalzone e intelligente a venticinque anni. Allora ho scritto un libro che nessuno stima un soldo, ma comunque non sarà più superato da nulla che io scriva.
Ho mandato – a mano – il Mornet in via Gioda. Può passare a ritirarlo. Le ho fatto il contratto per Addio alle armi; spero che martedì Einaudi lo firmi, e allora partirà. (Quando riceverà i libri francesi di Racine e Molière, me lo scriva).
La verità, Fernanda, è che divento egoista e ho dei terribili dolori alla vescica e finirà che mi facci visitare (fegato, polmoni, costola, vescica: andiamo bene). Non apprezzo più che i piaceri della tavola. Fernanda, glieli consiglio caldamente.
A me, che da giovani s’inventi e si crei, e da anziani ci si chiuda al calduccio e si diventi padri, mi convince che tutta la vita spirituale è condizionata dalla fisiologia e allora vuol dire che è un determinismo come tutti gli altri. Allora vada tutto all’inferno: vuol dire che neanche volendo si può più scrivere una bella cosa, né “essere felici” in compagnia.
Fernanda, sono molto infelice. Tuttavia L’accarezzo con riserbo, e la prego di ringraziare ancora la mamma per quella levataccia delle 5 1/2 e l’uovo e tutto.
Pavese
(Autografo presso la destinataria)
A Silvio Micheli, Viareggio
Roma, 14 agosto 1945
Caro Micheli,
il tuo racconto Pergola impazzita e la poesia sono passati a “Risorgimento” che ti risponderà. A me piace specialmente il racconto. C’è un risalto e un’incisività di particolari che me lo accostano assai e anzi mi danno l’avvio al discorso sul Pane duro.
Dunque l’ho ricevuto e riletto nella sua nuova forma. Stai tranquillo. Va bene e l’ho già rimandato a Torino in tipografia. Ho veduto più chiaro però nella sua natura. Fermo restando ch’esso è una prova superba di temperamento, una patente di scrittore coi fiocchi, m’ha dato qualche noia un difetto d’intemperanza. Quando ti butti a scrivere tu sei come una diga che si rompe: le parole non ti costano nulla, sgorghi e trabocchi, travolgi ogni cosa nella foga. Io credo che sovente, se tu volessi rastrellare la pagina, troveresti da sfrondare utilmente una metà delle sue righe. E’ il vecchio consiglio di Kipling: nello scrivere il difficile non è il dire, ma il non dire. Infatti la Pergola ha questo di nuovo e di meglio: le sue espressioni sono lo stretto indispensabile e mai ti abbandoni alla foga. Tu rasenti sempre il pericolo di cadere nell’oratorio o nel lirismo. In Pane duro te la cavi per via della giovinezza; ci si sente benissimo che cominci ora, che hai tutto da dire e quindi ti si sta ad ascoltare, ma se scriverai un’altra opera con la stessa abbondanza ti predico che riuscirà più fiacca e un’altra peggio e così via.
A proposito mi son messo a darti del tu, perché nella mia cautelosità piemontese volevo vedere bene prima se te l’eri cavata col secondo Pane duro; visto la prova positiva, non ho più ritegni e ti considero collega e amico. Se hai obiezioni, dimmelo.
Vorrei rispondere a tutti i punti del tuo letterone del 4 luglio (tre fogli dattiloscritti), ma come si fa? Prendo nota di tutti i tuoi progetti e ti attendo al varco…
Io sì ho scritto (poco) e ho tradotto (molto). Siccome da Villa a Roggio ti sento trasferito a Viareggio, mi chiedo che fine han fatto i tuoi cavoli e le tue rape. Anch’io sono tutto campagnolo di origine e di gusti, ma impenitente cittadino quanto a vita. Trovo che ciascun ambiente serve a far rimpiangere e quindi a gustare l’altro.
Basta. Può darsi che passi a Viareggio e allora verrò a conoscerti. Questa era soltanto per toglierti dall’incertezza rispetto a Pane duro, riprendere i contatti e darti del tu.
Ciao.
(Dattiloscritto in copia nell’Archivio Einaudi)
Cesare Pavese, Lettere 1926 – 1950 – Edizione Einaudi, 1973 (ristampa identica a quella del 1968).