“Paesi tuoi” segnò l’avvio dell’opera narrativa di Pavese. Pubblicato nel 1941, fu una delle prime prove di quel neorealismo di cui tanto si parlerà in seguito. Fece subito rumore, suscitò entusiasmi, scandali, discussioni, stroncature; ma soprattutto rivelò un solido nuovo scrittore. “Il racconto di Pavese è così intimamente mosso e commosso, scrisse allora Pietro Pancrazi che, nel complesso, vince anche la difficoltà dell’arte poetica che si è imposto. Si sente che i personaggi e i paesi del suo dramma gli hanno parlato nel sangue prima ancora che nell’arte. C’è in “Paesi tuoi” un’esigenza umana, e un movimento, un piglio di scrittore serio, che non ingannano.” (Note di copertina).
In “Paesi tuoi” si rileva ancora una volta la contraddittorietà del rapporto città/campagna; mentre nella campagna la natura rivela la sua vitalità originaria ma si afferma nello stesso tempo come forza cieca, inesorabile e mortale, nella città l’uomo si costruisce come essere sociale e civile ma nello stesso tempo si perde nell’artificio, nell’accumulo di oggetti, in una vita sempre più priva di valore. I due protagonisti del romanzo sono giovani che condensano in sé i significati più profondi dell’ambiente da cui provengono e ne incarnano i caratteri più totali e risolutivi.
Talino è il personaggio-modello dell’ambiente campagnolo: sornione e scaltro, pur con la sua aria da sprovveduto, bugiardo, violento; Berto è il personaggio-modello dell’ambiente cittadino: si ritiene superiore e molto più intelligente di Talino, sa muoversi con tranquillità tra il caos cittadino, ma sente la propria vita come priva di valore, non ha amici e anche coloro che potrebbe considerare tali, sa che non esiterebbero a tradirlo. Per questo forse lo segue e si lascia trascinare da Talino in campagna, alla ricerca di un ambiente e di uomini diversi, di amicizie sincere, anche se sente dentro di sé che la città è il suo unico ambiente naturale.
Un romanzo da leggere per narrazione intensa, forte e appassionante. Il linguaggio è gergale, caratteristico, ma sempre fluido, quasi musicale.
Estratto:
Ero tanto stanco che, dormendo, mi pareva di cadere in un pozzo, e sopra si sporgevano Talino Gisella Pieretto tanta gente; io cadevo, cadevo sempre, mi pareva di cadere tutta la notte. Ero diventato vigliacco come non so cosa, e mentre cadevo allungavo la mano sotto per sentire se c’erano dei rastrelli piantati sul fondo.«Tanto se ci sono t’infilzi » dicevo nel sogno, e sentivo la vertigine e pensavo. Chi sa che rumore faccio quando cado nell’acqua.
[…]
A mezzogiorno vengono a chiamarmi e si mangiò un’altra volta il minestrone di verdure, e le acciughe e il formaggio. Era così che quelle donne crescevano spesse, ma Gisella che adesso mi guardava ridendo, sembrava invece fatta di frutta. Perché, una volta finito, chiedo a Talino se non aveva delle mele, e lui mi porta in una stanza dove ce n’era un pavimento, tutte rosse e arrugginite che parevano lei.
Me ne prendo una sana e la mordo: sapeva di brusco, come piacciono a me.
— Sono le mele di Gisella, — fa Talino mentre torniamo a tavola.
— Perché? — chiedo a Gisella. — Covate le mele?
Non capivano mica. Invece il vecchio mi spiega che quando nasce una figlia si pianta un albero perché
cresca con lei.
— Quand’è nato Talino, chi sa cos’avete piantato, — dico. — O legna da bruciare o una zucca.
Salta su il gorba che mi aveva lustrato la macchina e dice: — Perché non si pianta una vigna per figlio?
Così si farebbe piú vino.
— Saremmo i padroni di tutta la collina a quest’ora, dice l’Adele.
Io guardavo Gisella e Miliota. Talino dice: — E per te, macchinista, cos’hanno piantato?
— Grane, — gli faccio, — grane e tabacco, questo sí: ma sui marciapiedi di Torino il tabacco non cresce e allora mi tocca comprarlo. Le grane le trovo per niente.