Legami di scrittura. In questo articolo Adriano Sofri sviluppa un’ ampia comparazione tra il “bellissimo” romanzo di Mariateresa Di Lascia e “Menzogna e sortilegio” di Elsa Morante, con il quale il primo presenta affinità che Sofri mette in evidenza, pur avvertendo che esse nulla tolgono alla originalità del lavoro di Mariateresa Di Lascia. L’autore mette anche in risalto come nel romanzo i protagonisti, o meglio le protagoniste (“Giuseppina, Peppina, Anita, Chiara,” ecc.) hanno “un destino chiuso” “sigillato”, che si svolge al di fuori, o al di sotto, della “Storia”, come pure accade nel romanzo della Morante.
DONNE A UNA DIMENSIONE
di Adriano Sofri
Qualche giorno fa, in via di Ripetta a Roma, è stato presentato un romanzo. Ero fra i presentatori, sono arrivato a Roma presto, ho gironzolato, sono passato da via dell’Oca, dove abitava Elsa Morante. Via di Ripetta è a due passi. L’articolo che vorrei scrivere comincerebbe così: “In un pomeriggio primaverile, benché di metà febbraio, l’anziana scrittrice Elsa Morante si è messa addosso uno scialle colorato ed è uscita, come le avviene raramente, per andare ad ascoltare la presentazione di un libro, cosa che non le avviene mai. Il libro si intitola ‘Passaggio in ombra’, l’autrice si chiama Mariateresa Di Lascia e ha quarant’anni. Qualcuno aveva detto a Elsa che una donna aveva scritto, mezzo secolo dopo, un romanzo bello e forte come ‘Menzogna e sortilegio’. Elsa, che è scontrosa ma speranzosa, l’ha letto, ed ecco perché è andata a trovarsi un posto nella sala di via Ripetta, abbastanza avanti da lasciarle vedere in faccia l’autrice. la famosa scrittrice si è sorbita in una specie di dormiveglia i discorsi dei presentatori, in cui si faceva largo ricorso al suo nome, finché ha incontrato lo sguardo di Mariateresa Di Lascia, che le è sembrato un po’ tranquillo e un po’ ansioso. Allora le ha fatto un sorriso da incantatrice, ma anche da incantata. Mariateresa le ha sorriso a sua volta…”
Le cose non sono andate così, si sa. Elsa Morante è morta addirittura da dieci anni. Mariateresa Di Lascia è morta l’estate scorsa, senza vedere l’uscita del suo bellissimo romanzo.
Nel suo romanzo le persone hanno destini chiusi, sigillati in un solo carattere, in un unico evento. Giuppina poco più che bambina resta incinta, e vivrà sempre del figlio nascosto e negato. Peppina vive della sua domestica megalomania e del sequestro esaltato della nipote. Anita vive di sua figlia Chiara, e di un breve amore simile alla compassione, ravvivato quando Francesco è in carcere ingiustamente, umiliato senza rimedio quando lui l’abbandona sull’altare nuziale. Chiara è spettatrice e testimone bambina del destino di una stirpe: ne esce una volta, adolescente (si ha l’impressione che per la prima volta vada fuori casa da sola, senza le sue care donne, senza la balia Rosina, la madre Anita, la zia Giuppina; senza il padre Francesco) come per un’avventura intrepida, l’amore per il cugino, il riscatto dei bastardi, il compimento di ciò che è stato per generazioni soffocato. Ma è solo un malinteso: come la colomba mandata fuori a cercare il verde, e non lo trovò e tornò indietro, Chiara si annulla e si infagotta, perde sangue e sesso. Rinnega la propria identità muliebre, e anche la sorte di una madre che aveva cercato se stessa nel lavoro di ostetrica, prima di essere offesa a morte. Chiara resta come l’ospite per sempre bambina delle cose usate, e della memoria di chi non c’è più. I destini degli uomini, dei maschi, sono spesso odiosi, sempre poveri. Nei destini delle donne, le vite che contano, c’è un episodio, un incontro, una passione, una disgrazia – e poi un ‘mai più’.
Non c’è la Storia. Il libro di Mariateresa non ne ha bisogno. Le storie delle sue donne bastano a se stesse. La Storia mancava anche a ‘Menzogna e sortilegio’, pure scritto durante e subito dopo la guerra. Molto più tardi Elsa Morante contrappose la Storia alle storie, e imputò alla prima la rovina delle altre: si sarebbe visto poi, con ‘Aracoeli’, che si era ancora trattenuta sull’orlo della pena senza riparo. Nel libro di Mariateresa l’alzata di spalle verso la Storia colpisce singolarmente: perché Mariateresa è stata una persona pubblica e politica – un onorevole, perfino: miracoli della vecchia vicenda radicale – e febbrilmente dedita alla cura degli altri; e perché nel suo romanzo hanno una parte il consorzio agrario e il sottosegretario e la giustizia e gli intrighi del dopoguerra. Teatrino della vicenda antica e fatale di sangue, di “razza”, di pudore violato e di bastardi insultati che attraversa il romanzo. Questa antichità, questa lunghissima durata, è una delle risposte alla domanda impressionante: come è possibile che un libro paragonabile a ‘Menzogna e sortilegio’, con un’ambientazione, un intreccio, uno stile perfino, paragonabili, venga scritto cinquant’anni dopo, e non sia un epigono soffocato, e splenda della propria luce?
L’abbiamo fin troppo citata, Elsa Morante, in questi anni. Del resto quella maga si fa viva continuamente. Un giorno, qualche anno dopo la sua morte, Lucia, la fedele, la sua “uccella di mare”, alla domanda se avesse bisogno di qualcosa, rispose di no, che era ricca: “So’ arrivati li sordi de li sortilegi di Elsa”, e intendeva i diritti d’autore di qualche versione straniera di ‘Menzogna e sortilegio’. Li sortilegi di Elsa. Quando dissi a Mariateresa che nel suo romanzo c’erano episodi che ricordavano la biografia di Elsa mi rispose che non ne sapeva niente. Però il paragone con ‘Menzogna e sortilegio’ è obbligato, come è facile che noti ogni lettore che abbia orecchio. Quando le scrissi, a proposito del libro ancor inedito, non avevo visto un appunto che Sergio, il suo compagno, mi ha dato poi. Lì Mariateresa aveva scritto: “Donna Peppina Curatore: la magica zia Peppinella e l’intreccio di Menzogna e Sortilegio (ricordare mi piace più ancora che vivere/Chiara)”. Il paragone si fa prendere in parola dalle prime righe. In ambedue i libri, la narratrice è donna, e coincide con un personaggio femminile (per Elsa, se non sbaglio, è l’unica volta, fino alla catastrofe di ‘Aracoeli’, dove la prima persona ritorna, per sfregio, in una voce maschile). Sono ambedue “l’ultima di tre generazioni”. I due libri cominciano dalla fine, ‘da quando tutti sono morti’.
Mariateresa: “Nella casa dove sono rimasta, dopo che tutti se ne sono andati e finalmente si è fatto silenzio…”. “Hanno cercato in molti di convincermi a lasciare questa casa, perché è piccola e affogata…”. Elsa: “Son già due mesi che la mia madre adottiva, la mia sola amica e protettrice, è morta…”. “nessuno sale più a questo piccolo appartamento, dove sono rimasta io sola”.
Mariateresa: “…gli sciatti vestiti che mi coprono il corpo”. Elsa: “…infagottata nel solito abito rossigno…”.
Mariateresa: “Quando donna Peppina, che mi ha amata più di ogni cosa al mondo…avevo dodici anni”. Elsa: “la mia seconda madre, la sola cui piacque di lodarmi, e perfino di trovarmi bella…al giorno che mi vide, bambina di dieci anni, entrar qui per la prima volta”.
Mariateresa: “La creatura sgraziata che mi viene incontro dallo specchio…sono io. La consistenza delle carni e la foggia confusa dell’abbigliamento mi sbalordiscono…”. Elsa: “Il mio riflesso mi si fa incontro a tradimento; io sussulto…e poi, quando mi riconosco, resto immobile a fissare me stessa”.
La Elisa dell’esordio di Elsa è, come Chiara, “fatta sensibile e morbosa da straordinarie commozioni”. Ha una compagna: “La memoria…Non soltanto il ‘mio’ passato, e in particolare l’infanzia…ma anche il ‘loro’ passato, quello di mio padre e di mia madre, e della mia famiglia defunta”.
Di una simile memoria, Chiara vive dopo la caduta della sua breve fuga verso la vita vera, fatta quasi schermo della fantasmagoria dei ricordi propri e altrui.
Altre, evidenti similitudini: le donne e il meridione, l’amore del cugino, il morbo fantastico della genealogia familiare di Elisa, il “sangue” dei D’Auria. Perfino nei nomi – i genitori Anna e Francesco di Menzogna e Sortilegio, Anita e Francesco di Passaggio in Ombra – c’è un rimando, come un saluto. E la più forte similitudine, almeno in apparenza: la lingua. In quest’ultima, un’affinità è vera e profonda, e ha a che fare con due qualità essenziali: l’adesione a un linguaggio femminile, di quelli che usano le madri e le balie e le nonne con le nipoti, e le bambine con loro; e uno stile regale, dotto ma noncurante di dottrina, e indifferente all’opinione altrui. Di questo, per Mariateresa, ho esperienza diretta, rispetto alle versioni del suo lavoro, all’accondiscendenza distratta verso certe correzioni, e al puntiglioso rifiuto di altre. Una padronanza senza sforzo e senza soggezione della propria scrittura. Ma la scrittura rigogliosa e lussureggiante che era di Elsa in ‘Menzogna e sortilegio’, che fece parlare di un barocco morantiano, questa è estranea a Mariateresa. Non le è estranea né una forza di eccitazione, né la magia delle parole dette e taciute: ma il vento che gonfiava e portava in altro le frasi di Elsa, costringendola di tanto in tanto a veri intermezzi poetici, filastrocche dissepolte o canzoni sue, solleva le parole di Mariateresa solo come un aquilone dal filo corto, tenuto stretto nella mano, e richiamato presto a terra. La lingua del racconto di Mariateresa ha bisogno di chiudersi a ogni capitolo su se stessa, facendosi laconica e secca: come, appunto, un coperchio che torni a calare, una porta che si richiuda. Di case chiuse, di una claustrofilia e reclusione monacale è fatto anche ‘Menzogna e sortilegio’; qui la bambina si muove fra una casa e l’altra, segrete tutte e nessuna davvero sua, e avventurarsi fuori, oltre il paese, fino sul treno e nella città vicina, è il sigillo della perdizione. Ne torna, Chiara, riportata indietro esanime. In quell’episodio la lingua cambia, e anche il tempo: Chiara sta parlando di sé, e di una sé che agisce; tuttavia nel suo slancio convulso e rovinoso è più distante che mai, più vista dal di fuori che in qualunque altro episodio. Altrove, la bambina che è stata era vista con gli occhi delle altre donne, ciò che toglie alle descrizioni di sé, della propria bellezza, della propria promessa, ogni compiacimento e leziosaggine, e le fa invece amare e pietose.
Lo scandalo che Elsa poi descriverà, soprattutto attraverso l’Useppe della ‘Storia’, quando il suo sguardo di madre non sarà più dissimulato, è lo scandalo inflitto ai bambini e alle creature animalesche – Bella o Ida. Lo scandalo cui non resiste Chiara, che se ne ripara, come Useppe col grande male, con gli occhi che si chiudono e il sonno che la invade, e poi con le crisi di soffocamento e la malattia e la rovina, è il suo proprio: uno scandalo di bambina che non accetterà più la vita, di bambina che ha visto i conigli ammazzati in quel modo, che ha visto il ragazzetto Saverio malmenato senza lamentarsi, che ha visto lo sguardo del padre coi ferri ai polsi, che ha visto Anita tradita mentre aspetta il suo sposo all’altare, e poi umiliata alla sua ricerca, e che l’ha vista morire. L’eccesso di passione della Elisa di ‘Menzogna e sortilegio’, e il finale delirio epistolare (e di scrittrice) è del tutto lontano da Chiara, e questo segna anche la distanza sempre più forte fra le lingue. La memoria e la scrittura di Chiara coincidono con la sua vita che si rattrappisce, e va incontro alla morte. E’ la morte, infatti, il ballo fra la Memoria e il Futuro che chiude il libro in modo commovente.
Dev’esserci, fosse anche solo nell’immaginazione di noi ancora vivi, un posto in cui Elsa Morante abbia sorriso a Mariateresa Di Lascia, e Mariateresa a lei.
Adriano Sofri, L’Unità, 27 febbraio 1995