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L’arte di leggere – Eugenio Montale

Montale l'arte di leggereNel 1972 Giulio Villa-Santa – redattore della Radio della Svizzera italiana – trasmette una serie di interviste dedicate ai piaceri, ai rischi e all’arte della lettura, tra queste l’intervista a Eugenio Montale. La conversazione aveva come spunto il libro dell’accademico di Francia Emile Naguet L’art de lire (1912). Il poeta, non ancora insignito del Premio Nobel, aveva allora 76 anni. Il testo dell’intervista, riaffiorata dagli archivi della Radio svizzera, è stata’ pubblicata in un libro da Edizioni Interlinea di Novara, a cura di Claudio Origoni e Maria Grazia Rabiolo, con note di Fabio Soldini e Uberto Motta.

MONTALE: Prima di leggere, annusate

Joyce: un grande, ma che fatica. E su Nabokov ho qualche dubbio

Per la lettura, è valida la regola della lentezza?

Certamente il pensiero si è accelerato, ma quanto alla lentezza della lettura il problema si presenta in modo diverso. Intanto c’e’ il modo di leggere e il modo di rileggere. Non si può leggere rapidamente Proust, ma una rilettura eventuale potrebbe essere anche più rapida. Ci sono libri di cui si sente la necessità di una lentezza di lettura e ci sono altri libri, per esempio il libro giallo, che richiedono invece l’accelerazione della lettura. Esplora il significato del termine: L’ideale per il libro di successo, per il libro giallo, supponiamo, sarebbe anzi che la lettura non ci fosse affatto, cioè si cominciasse dalla fine, perché è la fine, il finale, il solo aspetto interessante del libro. E d’altra parte, questo interesse bisogna prepararlo con un lungo antefatto che non entusiasma per nulla ma che tuttavia deve esistere. L’ideale per il libro di successo, per il libro giallo, supponiamo, sarebbe anzi che la lettura non ci fosse affatto, cioè si cominciasse dalla fine, perché è la fine, il finale, il solo aspetto interessante del libro. E d’altra parte, questo interesse bisogna prepararlo con un lungo antefatto che non entusiasma per nulla ma che tuttavia deve esistere.


Quindi, a suo avviso, non è una regola generale quella del leggere lentamente?

Non è affatto una regola generale. Anzi, data la produzione d’oggi, diciamo così che la lettura lenta è quasi scomparsa. In genere, il libro viene sbirciato, annusato. Non è una cattiva pratica perché nel novantanove per cento dei casi, in cinque minuti, così, annusando un libro, si sa già tutto: si capisce se vale o non vale veramente la pena di leggerlo.


Pensa anche lei che il leggere piacevole e il leggere critico siano due cose diverse?

In molti casi sì, sono due cose diverse; in molti altri, non sempre. Diciamo che il libro che dà piacere non è sempre un libro deteriore; lo è spesso, ma non sempre. Ci sono autori che danno piacere – non so, non voglio citare i recenti che sono ancora vivi e suscettibili… – ma, ad esempio, non si può negare che Anatole France fosse un autore piacevole, e questo non toglie niente alla sua importanza. Poi, invece, ci sono gli autori che desiderano esplicitamente di essere letti con una certa difficoltà. Uno dei maggiori è James Joyce. Pochissimi hanno letto l’Ulisse, pochissimi ne hanno tratto piacere; e, d’altra parte, senza l’Ulisse la fama di Joyce sarebbe di molto inferiore, nonostante i bellissimi racconti da lui scritti in precedenza. Noi abbiamo Antonio Pizzuto, un siciliano di grande talento, già un uomo anziano, che scrive libri estremamente difficili. La sua fama – sia pure solo in ambienti limitati ed estremamente qualificati, di persone molto serie, di critici finissimi – mette Pizzuto addirittura fra i grandi della nostra letteratura. Io poi ho grande simpatia per Pizzuto, che non conosco personalmente; trovo che debba essere un uomo delizioso. Ma, certamente, leggere Pizzuto richiede, diciamo così, una specie di fatica, di preparazione, come quella di chi si appresta ad andare dal prete a confessarsi, una specie di preparazione quasi ascetica. (…) Ma, insomma, non tutti i lettori possono compiere questi esercizi spirituali.


Anni fa, lei scrisse la recensione di un romanzo che le aveva fatto passare alcune belle ore, ma che la lasciava perplesso. Quel romanzo era Lolita di Nabokov. Oggi cosa ne pensa?

Lolita è un libro difficilmente giudicabile perché è molto interessante, appassionante. Si legge con vivo piacere, ma non si riesce a capire se sia un eccellente prodotto industriale o un’opera d’arte. Io credo che questo problema non sia stato posto o risolto dai critici. Insomma, non posso dire, in coscienza, che Nabokov sia un cattivo scrittore. Alcuni si sono spinti perfino a leggere il suo più recente libro, Ada, che mi pare abbia delle pretese enormi: inizia con l’albero genealogico dei personaggi… Si sente dentro questo libro una grande erudizione, anche letteraria. Così, non si può dire che Nabokov sia un autore da trascurarsi, però… resta sempre quel “però” sul fondo. A volte ci sono degli atleti, come Nino Benvenuti, che vincono, non vincono, perdono, vanno avanti in questo modo per qualche anno, poi, quando incontrano uno che fa veramente sul serio, non c’è niente da fare: sono battuti. Perché si sente che manca il fondo. Lo dice il critico sportivo: “manca il fondo”. Non sono sicuro che Nabokov abbia questo fondo, ma non posso negare che sia un uomo estremamente intelligente (per quanto sia – mi dicono, non vorrei calunniarlo – un grande ammiratore della stazione ferroviaria di Milano, e questo depone molto male. Ma forse e’ una calunnia).


A Eugenio Montale è mai accaduto di sentirsi possedere da un certo personaggio, di assumerne l’identità per qualche tempo, nella propria vita di ogni giorno?

No, fino a questo punto non mi è mai veramente accaduto. Però di ravvisare il sosia di un personaggio letterario in una persona vivente, qualche rara volta mi è capitato. Ricordo che c’era a Firenze una signora – la vidi rarissime volte – che per me era Anna Karenina. Ma sono fatti rari. Per avere sotto gli occhi una gamma di tipi così, bisognerebbe leggere gli 80 e più romanzi di Balzac.

Un mio conoscente, non privo di intelligenza né di sensibilità, non gradì il romanzo perché trovava Zeno una persona insopportabilmente debole.


Qual era il suo errore?

Errori ce ne sono molti in questa affermazione. Il principale è che questo lettore confonde la vita con l’arte. Si vede che detesta gli uomini deboli. Può darsi che li detesti anche per ragioni privatissime, intime, per averne fatto la prova, diciamo così. Però non si vede come un uomo debole non possa essere protagonista di un romanzo. Io penso che i deboli abbiano maggior possibilità di sopravvivere nel mondo dell’arte perché il forte ha sempre più probabilità di essere artificioso, di essere falso, di essere un personaggio, per così dire, illusorio. Il libro con l’uomo forte è sempre un libro un po’ artificioso, anche consapevolmente artificioso. In tutti i romanzi russi, per esempio, c’è sempre l’uomo forte, ma è immancabilmente tedesco…


E la poesia? Sappiamo leggere la poesia?

“Emile Faguet sosteneva che i versi devono essere letti due volte: prima in silenzio, poi a voce alta, per coglierne la musica e il ritmo, da lui visto come il movimento stesso dell’anima dell’autore. (…)
Il fatto resta piuttosto problematico, perché può darsi che gli stessi difetti possano essere anche pregi. Per esempio, Saba era uno spaventevole dicitore delle sue poesie. Ricordo la prima volta che andai a trovarlo, nel 1925, mi pare. Io ero allora molto giovane. Andai a trovarlo con grande ammirazione, lui mi accolse con la sua nota cortesia e mi recitò la sua ultima poesia che ora ripeterò con la sua voce, ma non posso fare il gesto, ci vorrebbe anche un gesto con la mano, la mano ondeggiante, leggermente svolazzante. Leggeva: «Il cane, / bianco sul bianco greto, / segue inquieto / un’ombra, / la nera / ombra d’una farfalla, / che su lui gialla / volteggia». Ora, io dico, saranno belli, saranno brutti questi versi, non lo so. Se li sentissi recitare da Gassman, da Albertazzi o da altri, io sarei terrificato, perché troverei che sono una copia, una cattiva copia di questo straordinario originale che io ho captato in quel momento. Mettete questi versi in bocca di un attore e tutto cade.


Ha forse torto l’attore?

Non ha torto, disgraziato, non ha torto. Ma non ha torto neanche l’autore, purtroppo (…).


La lettura non e’ un rischio per la vita? Si può, insomma, amare la lettura, almeno oltre un certo limite, senza mettersi fuori del proprio tempo?

Lei mi chiede se si può essere dei lettori partecipando ancora alla vita? Penso di sì. Non vedo una totale incompatibilità fra il vivere e il pensare. Questa antitesi veramente c’è, ma solo quando venga portata agli eccessi; portata agli eccessi, c’è. Sono esistite persone che hanno eliminato del tutto il pensiero e altre, invece, che hanno eliminato del tutto la vita. Il lettore impunito (non so di chi fosse questa definizione), il lettore accanito, il lettore famelico che legge tutto, non so quale partecipazione possa avere con la vita, quale rapporto possa avere con la vita: diventa un malato. Ci sono questi estremi. Ma ci sono poi gli stadi intermedi. Un Leopardi ha veramente rinunciato alla vita? Io non credo, non credo affatto. Se misuriamo la vita in mesi, in anni, in settimane, o anche in fatti, in viaggi, in esperienze, in donne, in amori, in affari, in azioni… allora si può dire veramente che Leopardi ha vissuto ben poco, insomma. Ma ha poi veramente vissuto ben poco? Questo rimane un punto interrogativo.

Villa Santa Giulio 

[Da: Corriere della Sera – (19 maggio 1998) ]
EUGENIO MONTALE, L’arte di leggere. Una conversazione svizzera, a cura di C. Origoni e M. G. Rabiolo, Interlinea Edizioni.