Menu Chiudi

L’angelo di Avrigue – Francesco Biamonti

L'angelo di Avrigue
Pubblicato nel 1983, L’angelo di Avrigue è il primo romanzo dello scrittore ligure; un  piccolo capolavoro. Francesco Biamonti ci accompagna, pagina dopo pagina, con estrema delicatezza, in quell’atmosfera apparentemente poco ospitale, fatta di rupi e colline ripide, scogli, fossi e burroni, e ce ne fa respirare gli odori.  
“Ci sono romanzi-paesaggio così come ci sono romanzi-ritratto. Questo vive, pagina per pagina, ora per ora, della luce del paesaggio aspro e scosceso dell’entroterra ligure, nell’estremo suo lembo di Ponente, al confine con la Francia.
La voce narrante è quella di un marinaio che non prova nessuna impazienza d’un nuovo imbarco (patisce il “male del ferro”, l’angoscia che la lamiera del cargo trasmette durante le lunghe traversate) ma anche se ama la sua terra più del mare, la gioia che ne trae gli sa sempre d’amaro. E’ una voce grave e pausata, con una naturale propensione per i toni lirici e sospesi; ma il suo vocabolario è ricco di parole vere e insolite e precise, che vengono dal linguaggio parlato a ridosso delle Alpi Marittime. (L’apparizione d’un pastore che parla provenzale ci ricorda che anche linguisticamente questa è una zona di frontiera).
Tra i casolari di pietre e i villaggi di bungalow, i due aspetti della Riviera sono qui presenti insieme: un’agricoltura faticosa e solitaria e il mondo facile del turismo, a cui s’aggiunge la nuova dimensione internazionale del vagabondaggio giovanile che segue il miraggio della droga. E poi il pathos della frontiera,con la sua drammaticità depositata in tante storie di guerra, di contrabbando, d’espatri clandestini.
Come seguendo una tacita morale libertaria, il protagonista si rifiuta di giudicare il modo in cui ogni individuo spende la propria vita; ma vorrebbe comprendere cos’è quella spinta di autodistruzione che si sente nell’aria; e i suoi andirivieni lo portano a indagare sulla morte misteriosa d’un giovane. Quattro personaggi di donne, ognuna con una sua ossessione, incrociano i suoi passi; ma le solitudini sommandosi non s’annullano.”
Italo Cavino  (Dalla quarta di copertina della prima edizione de L’angelo di Avrigue, 1983)

Quel mondo che raccoglieva i suoi affetti se ne andava. Non tutto, gran parte. Restavano dei solchi, delle trame a suggerire la sua scomparsa.

Estratto:

Gregorio conosceva ancora bene la vita del paese, vita e miracoli. L’immobilità delle cose garantisce dal trascorrere del tempo e dai mutamenti. Tutto è eguale, da sempre e per sempre: le feste, le esequie, le esistenze imprigionate, gli spersonalizzati destini personali, la miseria che viene dai secoli.

Erano stati tenaci lavoratori. Avevano costruito ripiani, scavato e ulivato. Da zero fino a seicento metri sul mare. La fatica tradotta in opere e la pena blandita dalla «buona morte». San Sebastiano e Nostra Signora dei Dolori. Feticci inventati per consolare ed unire all’idea di questa fatica, da sola insostenibile. E morte sparsa come una promessa sulla sofferenza ineluttabile.

Chi nel passato aveva creduto in una qualsiasi forma di felicità terrena, al di fuori del possedere una casa in paese e una campagna rocciosa, si era perduto.

La vita era stata uniforme.

Ciascuno conosceva il suono delle campane, la loro eco nei vicoli, l’inclinazione del sole sulle case, la linea d’ombra sui due versanti della valle in qualsiasi ora e mese di qualsiasi anno.

I fatti acquistavano la forza del mito e si radicavano nella memoria dei padri dei figli e dei nipoti: un triennio di Siccità, un intero anno di Piogge, il Maestrale, la Spagnola, il Tifo, la Fillossera, la Prima Guerra Mondiale.

Più solenni le funzioni religiose se una morte accidentale, la pazzia, un suicidio venivano a rompere il senso del limite, a infrangere l’ordine.

I vecchi sotto il portico, che dava sulla piazza vuota, facevano un po’ di cronaca (come furono loro stessi a dire) parlando di rapine sequestri omicidi e altre cose «all’ordine del giorno».

La pensione di cui vivevano, chiamata «la minima», era pari e forse più alta del reddito ricavato in passato da fasce e petraie. Ciò li disorientava e li rendeva persino allegri.
[…]
L’uliveto soprano stava aggrappato a un pendio ripidissimo, come una grande farfalla dalle ali polverose. Più in basso altri uliveti e altri massi scendevano già nell’ombra del crepuscolo, mostrando una bellezza senza pulviscolo, triste e quasi funebre.
Al di là del ritano, sulla sponda di un terrazzo, due girasoli piegavano nelle grandi foglie già secche.
Il suo bosco di ulivi era inchiodato da un vento inquieto. Più lontano la collina di Avrigue era avvolta da una luce minore.
Quel mondo che raccoglieva i suoi affetti se ne andava. Non tutto, gran parte. Restavano dei solchi, delle trame a suggerire la sua scomparsa.
Rami d’ulivo, tetti e profili di colli evocavano nella sera la presenza della terra. Sì, essa non era diversa dal mare, ridotta a incisioni quasi argentee.

Entrò in casa di notte.
Accese la stufa a legna, la cucina si riempì di fumo. L’amaro fumo dell’ ulivo gli teneva compagnia. Non aveva nulla di lieto a cui pensare.
Il suo passato era deserto e mare diaccio. Deserto il tempo che precedeva il primo imbarco: corvi lo sorvolavano. E gabbiani – gabbiani d’avorio dell’Artide – erano i ricordi più recenti.
Nè quei corvi, nei quei gabbiani gli facevano più paura. Ciò che temeva era era una ricaduta in quel male del ferro che lo aveva costretto a sbarcare. Ripensò il mare irrigidito, duro campo d’arenaria…
Andò ad armeggiare intorno al focolare dell’altra stanza. Torno in cucina e mise un ciocco ancora troppo verde ad asciugare sulla stufa.

Francesco Biamonti, da “L’angelo di Avrigue”