Prima di inventare l’architettura l’uomo possedeva una forma simbolica con cui trasformare lo spazio: l’azione del camminare. E’ camminando che l’uomo ha cominciato a costruire il paesaggio naturale che lo circondava. E’ camminando che nell’ultimo secolo si sono formate le categorie con cui interpretare i paesaggi urbani che ci circondano. Breve, chiaro e conciso, Walkscapes tratta del girovagare come forma d’arte, come atto primario di trasformazione del territorio, come strumento estetico di conoscenza dello spazio, come pratica di intervento urbano atta ad esplorare gli spazi nomadi della città contemporanea. Si parla del viaggio in se stesso come forma d’arte. Dal nomadismo primitivo al Dadaismo e al Surrealismo, dal Lettrismo all’Internazionale Situazionista, e dal Minimalismo alla Land Art, questo libro ricostruisce il divenire della percezione del paesaggio raccontando la storia dell’attraversamento della città, del perdersi e del vagare in cerca dell’altrove. Il testo mette in discussione alcune abitudini radicate e costringe gli architetti ad uscire da certi riferimenti (normativi, metodologici…) nell’analisi delle cose e a guardare agli spazi vuoti come luoghi di significato. Francesco Careri suggerisce oggi la Transurbanza ed invita ad andare alla ricerca di spazi vuoti da percorrere come in un labirinto, individuando dei tratturi urbani dove è ancora possibile esperire la differenza tra nomadismo e sedentarietà, categorie basilari per poter comprendere la presenza della nostra specie sulla terra.
Il libro si presta ad una doppia lettura, ci si lascia sollecitare e un po’ affascinare da questi continui rimandi alle avanguardie, all’archeologia, all’architettura, oppure si può leggere l’importante mole di materiali raccolti (citazioni, fotografie, poesie, volantini, comunicati stampa, mappe, racconti, voci di glossario, inserti tematici) da chi si è preoccupato più di camminare che di lasciare traccie.
Biografia:
Francesco Careri (Roma 1966) è architetto ed insegna Arte civica (così ha preferito ribattezzare la public art) all’Università di Roma Tre sperimentando con gli studenti metodi di riappropriazione e di intervento diretto nello spazio pubblico. E’ membro di Stalker/ Osservatorio Nomade, una struttura aperta e interdisciplinare che compie ricerche e progetti sulla città attraverso l’esperienza diretta degli spazi complessi e l’interazione con gli abitanti, con il quale ha partecipato a numerose mostre internazionali di architettura e arte contemporanea.. Ha pubblicato nel 2001, Constant/New Babylon, una città nomade.
Chi perde tempo guadagna spazio.
Alla base del viaggio vi è spesso un desiderio di mutamento esistenziale. Viaggiare è espiazione di una colpa, iniziazione, accrescimento culturale, esperienza.
Il viandante sulla mappa
Uno dei principali problemi dell’arte del camminare è trasmettere in forma estetica l’esperienza. I dadaisti e i surrealisti non avevano trasferito le loro azioni su una base cartografica e sfuggivano la rappresentazione ricorrendo alle descrizioni letterarie; i situazionisti avevano prodotto delle mappe psicogeografiche, ma non avevano voluto rappresentare le reali traiettorie delle derive effettuate. Nel volersi confrontare invece con il mondo dell’arte e quindi con il problema della rappresentazione, Fulton e Long ricorrono entrambi all’utilizzo delle mappe come strumento espressivo. I due artisti inglesi in questo campo percorrono due strade che rispecchiano il loro diverso utilizzo del corpo. Per Fulton il corpo è unicamente uno strumento percettivo, mentre per Long è anche uno strumento di disegno.
In Fulton la rappresentazione dei luoghi attraversati è una mappa in senso astratto. La rappresentazione del percorso è risolta per mezzo di immagini e testi grafici che testimoniano l’esperienza del camminare con la consapevolezza di non poterla mai raggiungere attraverso la rappresentazione. Nelle gallerie Fulton presenta i suoi percorsi attraverso una sorta di poesia geografica: frasi e segni che possono essere interpretati come cartografie che evocano la sensazione dei luoghi, le altezze altimetriche oltrepassate, i toponimi, le miglia percorse. Come le poesie zen le sue brevi frasi fissano l’immediatezza dell’esperienza e della percezione dello spazio, come gli haiku giapponesi tendono a risvegliare un hic et nunc vissuto durante il viaggio. Il camminare di Fulton è come il moto delle nuvole, non lascia traccia né sul suolo né sulla carta:« Walks are like clouds. They come and go».
In Long invece il camminare è un azione che si incide sul luogo. E’ un atto che disegna una figura sul terreno e che quindi può essere riportato sulla rappresentazione cartografica. Ma il procedimento può essere utilizzato all’inverso, la carta può funzionare da supporto su cui disegnare figure da percorrere successivamente: una volta disegnato sulla mappa un cerchio lo si può percorrere al suo interno, lungo i bordi, all’esterno… Long utilizza la cartografia come base su cui progettare i propri itinerari, e la scelta del territorio su cui camminare è in relazione con la figura prescelta. Il camminare oltre ad essere un’azione è anche un segno, una forma forma che si può sovrapporre a quelle esistenti contemporaneamente sulla realtà e sulla carta. Il mondo diventa allora un immenso territorio estetico, un’enorme tela su cui disegnare camminando. Un supporto che non è un foglio bianco, ma un intricato disegno di sedimenti storici e geologici su cui aggiungerne semplicemente un altro. Percorrendo le figure sovrapposte alla carta-territorio, il corpo del viandante annota gli eventi del viaggio, le sensazioni, gli ostacoli, i pericoli, il variare del terreno. Sul corpo in movimento si riflette la struttura fisica del territorio.
Artisti come Fulton e Long hanno – per “forza di cose” – utilizzato la mappa come strumento espressivo, benché con modalità e presupposti differenti. Un aspetto di non secondaria importanza, già messo in evidenza dall’Italo Calvino de Il viandante nella mappa:
La forma più semplice di carta geografica non è quella che ci appare oggi come la più naturale, cioè la mappa che rappresenta la superficie del suolo come vista da un occhio extraterrestre. Il primo bisogno di fissare sulla carta i luoghi è legato al viaggio: è il promemoria della successione delle tappe, il tracciato di un percorso…
Il seguire un percorso dal principio alla fine dà una speciale soddisfazione sia nella vita che nella letteratura (il viaggio come struttura narrativa) e c’è da domandarsi perché nelle arti figurative il tema del percorso non abbia avuto altrettanta fortuna e compaia solo sporadicamente…
La necessità di comprendere in un’immagine la dimensione del tempo assieme a quella dello spazio è origine della cartografia. Tempo come storia del passato… e tempo al futuro: come presenza di ostacoli che si incontrano nel viaggio, e qui il tempo atmosferico si salda al tempo cronologico…
La carta geografica insomma, anche se statica, presuppone un’idea narrativa, è concepita in funzione di un itinerario, è Odissea. (Italo Calvino, Il viandante nella mappa, 1984)
Dunque spazio da esperire, da attraversare e sperimentare. Ma entro lo spazio della narrazione.
Francesco Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica. Einaudi, 2006