Secondo Franco Arminio, il lavoro della cultura oggi è un esercizio di microchirurgia, si tratta di ricucire nervi tranciati, tessuti lacerati. I piccoli paesi del Sud hanno bisogno di uno sguardo nuovo: ripartire dall’etica dell’uomo (etica dell’amore, della solidarietà, della comprensione) e dalle bellezze del paesaggio. Il metodo con cui l’autore persegue il suo obiettivo è la “Paesologia” – una fusione di antropologia e sociologia, geografia umana e scienza del paesaggio. L’originalità del metodo ci convince.
Di Grazia Mazzeo
Leggere non è solo svago o una sorta di toppa da apporre sui buchi di tempo nello spazio di una giornata, magari come ripiego alla noia di una tele che gira a vuoto intorno a se stessa o ai social sempre più pieni di facce e senza più espressione. O meglio, potrebbe anche essere, è pure giusto sia così. Ma se fosse anche confronto? Ecco, sarebbe non solo uno svago sterile e solitario, bensì una condivisione di idee perché il nostro orizzonte si allarghi e si allunghi verso nuove prospettive. Il presidio del libro, un gruppo di lettura che si è costituito a Rocchetta S. Antonio (FG), crede che la lettura sia proprio questo; infatti, partendo da un libro si prefigge di condividere e confrontare le idee di ognuno con quelle dell’autore perché, non dimentichiamoci, che dietro e dentro ogni singola parola di un libro c’è un pensiero e l’intento di trasmettere un messaggio.
L’incontro con L’autore Franco Arminio è stato un viaggio o meglio una circumnavigazione attorno ad alcuni temi fondamentali che l’autore stesso, con la semplicità di un amico che conosci da sempre, tocca con partecipazione commossa per l’appunto in ‘Geografia commossa dell’Italia interna’. Commossa perché in questo viaggio che lui, da paesologo, compie in questi territori interni “Terra dell’osso” da sempre lambiti trasversalmente dal progresso, e da sempre definiti un problema irrisolvibile, riconosce il luogo di un nuovo riscatto. Non ci sono soluzioni di sorta o proposte di strategie mirate a inglobare nella corsa folle verso la modernità questo mediterraneo interiore, terra di confine in cui, abbagliati dai fari della modernità, abbiamo sostituito alla sacralità dei gesti quotidiani e atavici la meccanica legge delle merci, dell’avere invece che dell’essere, ma una riflessione profonda e ponderata sul senso stesso dell’uomo e sulla sacralità della vita che torna a riprendersi un pezzo alla volta il pianeta che gli appartiene. C’è poesia in ogni parola che come il vento accompagna il suo andare in questa terra di confine che aspira, senza mai riuscirci, a raggiungere velocità ed efficienza dell’altra Italia, quella “dell’alta velocità, dello sviluppo“. Un vento a volte lieve, come un sussurro, a volte forte e impetuoso, come la rabbia e l’indignazione di chi vorrebbe infrangere questa desolazione dell’anima, questa sorta di autismo generalizzato che lui definisce “corale” dentro cui ognuno di noi si è trincerato come fosse l’unico modo per interagire con la realtà circostante. Ed è proprio la poesia, intesa come ritorno alla bellezza, alla sincerità di sentimenti scevri dalle inquietudini dei nostri tempi che Arminio riconosce come unica globalizzazione, quella lirica, di un nuovo umanesimo che parte proprio dal Mediterraneo interiore.
Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane,
di gente che ama gli alberi e riconosce il vento.
Più che l’anno della crescita, ci vorrebbe l’anno dell’attenzione.
Attenzione a chi cade, attenzione al sole che nasce e che muore,
attenzione ai ragazzi che crescono,
attenzione anche a un semplice lampione,
a un muro scrostato.
Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere,
significa rallentare più che accelerare,
significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce,
alla fragilità, alla dolcezza.
Aggiornamenti sull’autismo corale
Oggi il mondo è diventato un grande io, di cui ognuno di noi è una piccola parte. Le guerre tra le nazioni saranno sempre più rare. Quelle tra gli individui sempre più diffuse. La Rete è il campo di battaglia di questa nuova guerra. Le ferite non ci fanno buttare sangue ma parole. Il silenzio della salute viene stracciato dal rumore delle offese ma anche da quello dei complimenti. Amici e nemici fanno lo stesso lavoro. Non è mai stato così difficile distinguerli. L’autismo corale produce un isolamento per accumulo. Più parliamo e più ci isoliamo. Quello che siamo non importa a nessuno. Al massimo possiamo mettere in circolazione una rappresentazione di noi stessi e vedere come viene deformata. La nostra insincerità viene accolta con una insincerità superiore. L’artificio di ogni vita va ad accumularsi in un artificio più grande che solo per pigrizia chiamiamo ancora società. Siamo in una nuova forma di pestilenza. Ci si può contagiare mettendo un post su Facebook, mandando una mail, scrivendo un sms. Siamo letteralmente crivellati da quest’artiglieria mediatica. Questi proiettili non ci fanno cadere a terra, ci fanno perdere compostezza, perdiamo parole, scie di parole, pozze di parole, un sangue grigio sparso intorno a noi, vittime ed eroi della società della comunicazione.
La guerra in corso non ha vincitori e vinti, è allo stesso tempo un dramma e un gioco, un lavoro e uno svago. È una guerra che non ha dichiarato nessuno e che mette fuori gioco le categorie di solitudine e di compagnia. Chi può dirsi veramente solo? Chi può dirsi veramente in compagnia? La guerra usa tutto, sentimenti nobili come l’amore e sentimenti ignobili come il rancore. Ci mette in trincea sia quando siamo gentili, sia quando siamo aggressivi. Se parliamo di noi siamo egocentrici, se non parliamo siamo scostanti. Le relazioni non sono quasi mai tra i nostri corpi ma tra le opinioni che ormai fabbrichiamo su tutto: mischiamo lo spread e la reincarnazione, la ginnastica e il sacro, gli orgasmi e le lacrime. Tutto sullo stesso tavolo, il mangiare e il dormire, la calma e il furore, l’impazienza e la compassione. Ogni concetto è uscito da se stesso cominciando una migrazione verso altri concetti che a loro volta sono in fuga. Tutto sembra appartenere al regno dell’apparizione più che della permanenza. Il virtuale non è una forma del reale, piuttosto il contrario. È la realtà che deve sgomitare per riuscire a trovare uno spazio nella foresta del virtuale. In genere c’è bisogno di un disastro perché la cosa sia più facile. Per uscire dall’autismo corale non possiamo tornare indietro a una comunità che ormai non ha più senso. Dobbiamo bruciare per intero questo delirio e vedere dopo la cenere cosa rimane. Perché la nostra vita riprenda consistenza deve cominciare a sfoltirsi, deve farsi scarna e indisponibile. Il demone dell’attualità, il demone della disponibilità ha divorato il seme del sentire. Sembriamo insetti morti sotto il grande tavolo del consumare e del produrre, del dire e del fare. Per ravvivarci, per ritrovare intensità dobbiamo ricominciare dal corpo, dobbiamo ricominciare dalle poche cose non corrotte, per esempio la paura della morte. Io quando incontro qualcuno che mi confessa il suo terrore della morte mi sento meglio, mi pare che il campo sia sgombrato dalle cianfrusaglie emotive e sociali con cui ci intratteniamo. La morte verticalizza il gioco, sospende la melina con cui da troppo tempo teniamo a bada la nostra vita e quella degli altri.
È arrivato il momento della vera clemenza e del vero conflitto. Le cose vere si riconoscono ancora, magari è più facile sentirle alle tre di notte o all’alba. Le cose vere si sentono quando ci spingiamo in un paesaggio non presidiato dagli umani. Per questo amo l’Italia senza capannoni e officine, l’Italia che sta nei nidi alti dell’Appennino. In effetti il mio lavoro è proprio questo accostare la poesia alla desolazione, la desolazione alla poesia. L’autismo corale si sconfigge non con la fuga nel deserto. Basta cercare i margini del nostro mondo, i luoghi sfrangiati, dismessi. Anche il pensiero unico ha le sue periferie, i suoi colpi a vuoto, le sue mancanze. Tutto quello che sembra un fallire oggi è la nostra unica speranza. E la morte, la nostra nemica di sempre, oggi può essere la nostra alleata, perché è considerata il fallimento definitivo. La Chiesa si ostina a parlare di transito verso l’eternità, ma non ci crede più nessuno. Il nostro problema è che abbiamo perso anche la morte. La vita dell’uomo attivo, la vita della società che vuole crescere, nel suo intimo è una resa in cui il prigioniero si mangia la prigione che lo contiene.
Franco Arminio, Geografia commossa dell‘Italia interna (Mondadori, 2013)