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Le illusioni d’Itaca – Giorgio Amico

Sullo sfondo di un paesaggio aspro e desolato di una malinconica bellezza, lungo una terra di confine dove passato e presente si mescolano continuamente un uomo venuto da lontano va alla ricerca di un sogno perduto. In un febbrile trascorrere di giorni e di incontri, nel tentativo disperato di dare un senso alla propria vita il protagonista ripercorre con lucida determinazione le tappe salienti di un amore giovanile perso nella luce accecante del cielo di Provenza, in una terra battuta dal vento su cui aleggia onnipresente il richiamo archetipico del mare.
Opera prima, di un scrittura scarna ed essenziale che si segnala per l’intensità espressiva del linguaggio, “Le illusioni d’Itaca” disegna con rapide pennellate i contorni di una Liguria di confine, costellata di vecchi borghi e di uliveti dove il paesaggio non rappresenta una qualche forma di consolazione dalle angosce del presente, ma esprime a sua volta la crudele ambiguità di un mondo apparentemente privo di senso.
Marinaio alla ricerca di un porto, con negli occhi visioni di città lontane (Lisbona, Marsiglia, Genova), il protagonista naviga attraverso il mare tempestoso dei sentimenti e dei rimorsi per approdare infine proprio nel punto da cui tanti anni prima era partito: quella casa sulla collina con i suoi vecchi muri di pietra smangiati dalla salsedine e dai licheni, metafora di un mondo perduto, simbolo di un universo ritrovato, rispecchiamento di un paesaggio dell’animo di cui occorre, pena la perdizione definitiva, ridisegnare i contorni.

Giuseppe Carli

Giorgio Amico (Imperia, 1949) Dopo una gioventù movimentata e una lunga carriera scolastica, si dedica attualmente alla ricerca storica e alla scrittura. Fra le sue opere: Operai e comunisti, Il rinnegato Korsch, Un comunista senza rivoluzione, Wifredo Lam, Futurismo a Savona.

Più tardi, mentre tornava verso il suo albergo, immerso nella folla della sera, pensava che la sua vita era stata un lungo, accidentato viaggio. Alla ricerca della sua Itaca di sogno. Come nella poesia di Kavafis

Se per Itaca volgi il tuo viaggio,
fa voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.
(…)
Né Lestrigoni o Ciclopi
né Posidone asprigno incontrerai,
se non li rechi dentro, nel tuo cuore,
se non li drizza il cuore innanzi a te.
Itaca t’ ha donato il bel viaggio.
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.
E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso.
Reduce così saggio, così esperto,
avrai capito che vuol dire un’Itaca.


Estratto:

L’inverno era di nuovo nel suo cuore e, mentre il giorno intristiva nel lento stagnare delle ore, anche il pianto era poca cosa.

Doveva fare qualcosa. Sentiva il bisogno di sfogarsi. Di scaricare in qualche modo l’amarezza che si sentiva crescere dentro. Dopo il pasto del mezzogiorno (pochi bocconi trangugiati in fretta), si avviò verso il passo in cima alla montagna. Il piccolo sentiero saliva ripido attraverso il bosco prima fitto, poi sempre più rado finché, finiti gli alberi ci si ritrovava allo scoperto sotto il sole cocente. Incominciò a salire. Sotto di lui vedeva la sua casa e sul vecchio tetto il gallo di latta che annunciava il vento. Quando il vento spirava dalla costa, su nella casa sotto la montagna si sentiva il profumo del mare. Era un odore acre che inebriava. Nei giorni ventosi quei luoghi cambiavano d’aspetto: sotto la sferza del vento di levante si agitavano convulse le chiome degli alberi e il monte pareva prendere vita, scuotersi, tremolare.

Quel giorno non c’era vento e il cielo rideva sopra la montagna sassosa. Saliva un passo dopo l’altro, nella calura del meriggio, talvolta appoggiandosi ad un masso e la croce arrugginita sulla vetta gli appariva come un miraggio nella luce intensa. Poi il sentiero terminò: davanti a lui una sfilata a perdita d’occhio di monti azzurrini, i monti di Francia. Amava quelle creste lontane che avevano per lui il sapore aspro della libertà e i contorni sfumati del sogno. Un cielo azzurro le sovrastava, tanto limpido da far male. Un annuncio di quel cielo di Provenza che aveva imparato a conoscere da giovane e che da allora non gli era più uscito dal cuore, simile ad un richiamo ossessivo, a un canto di sirene. Dietro quei monti, lo sapeva, c’era la valle del Rodano con le sue vigne e le sue città dal candore accecante: Avignone, Arles, Aix. E più sotto ancora la Camarga dei gitani, dei cavalli e dei tori. Terra di poeti e di pittori, terra di vento e di fuoco. Pensò a Mistral e ai troubadoures di un tempo, pensò ai cantori della rinascita occitana. Gli tornarono in mente i versi crudeli di Emile Bonnel, quello che più di tutti amava:

Entre la mar d’aigo
e lou desert di vigno,
sus lou pelagnas
ounte se courduron
li doua desesperanço,
l’alo di flamen
uiausso de sang;

(“Fra il mare d’acqua/e il deserto di vigne,/sulla vasta distesa/dove s’intrecciano/le due disperazioni,/ l’ala degli aironi/lampeggia di sangue”)

Delle sue vite precedenti non era rimasto niente. Niente. Solo ricordi. Da giovane gli piacevano le vie malfamate, i locali sordidi. Perdersi nella confusione e nel rumore. Ricordava ancora la prima volta che era stato a Genova. Ebbro di sole, si era immerso nei vicoli di Pre, richiamato dall’afrore del mare. Mescolato agli operai del porto, alle puttane e ai venditori di sigarette in via del Campo si era sentito finalmente a casa. Gli ritornavano alla mente gli odori di Lisbona, la luce bianca sulla città, le torri squadrate della cattedrale e il minuscolo Bico do Espiritu Santo dove aveva abitato. Riandava alla notte in cui, incantato dagli occhi neri di una fadista, si era battuto con un marinaio ubriaco in un vicolo dietro l’Igreja de S. Roque, su tra il Chado e il Bairro Alto e poi, ancora ansante, si era andato a sedere ad un tavolino del Caffè Brasileira, proprio accanto alla statua di Pessoa, a fianco degli intellettuali, dei pederasti e dei turisti in cerca di emozioni. 
Gli anni erano passati e lui con loro, morendo un poco ogni giorno, cambiando nell’animo. Era il silenzio ora ad attirarlo, il respiro profondo del tempo al di là di ogni illusione/rappresentazione. Rivedeva lo spicchio di mare in fondo alla viuzza di Bastia sotto le mura della cittadella genovese e la grande nave bianca che dalla sua finestra un mattino aveva visto passare come un gabbiano di sogno che fluttuasse nell’aria. Ripensava alle verdi vallate d’Occitania, ai borghi silenziosi, ai pascoli alti, alle danze frenetiche, ai libri di Fontan che parlavano di un popolo dimenticato che non voleva morire.

Luoghi dove era stato, dove aveva amato, dove si era sentito bene. Luoghi del suo passato, stanze della memoria. Questo e poco altro gli era rimasto. Desiderio di morire, volontà di vivere: a questo dilemma si era ridotta la sua vita Una sete di infinito, di intensità, di assoluto lo consumava.

Attese che calassero le prime ombre, poi incominciò a scendere.

Giorgio Amico, (da) Le illusioni d’Itaca, Erranze, Milano 2005

20 Marzo, Martedì

Quest’abito mi sta stretto, sempre più stretto. E questa guerra pure, questa guerra che mi costringe a camuffarmi così. Di mio sarei schietta e sfrontata, e mi ritrovo a fare la suora! Perché la guerra è temere che che ogni minuto sia l’ultimo minuto. Una bomba, un caccia che mitraglia, la soffiata di qualcuno che credevi amico, ed è fatta.
Oggi è il secondo giorno della nostra fuga. Non so se ce ne sarà un terzo. Ma so se qualsiasi prova il destino ci riservi io voglio essere all’altezza.
20 Marzo, Martedì

Quest’abito mi sta stretto, sempre più stretto. E questa guerra pure, questa guerra che mi costringe a camuffarmi così. Di mio sarei schietta e sfrontata, e mi ritrovo a fare la suora! Perché la guerra è temere che che ogni minuto sia l’ultimo minuto. Una bomba, un caccia che mitraglia, la soffiata di qualcuno che credevi amico, ed è fatta.
Oggi è il secondo giorno della nostra fuga. Non so se ce ne sarà un terzo. Ma so se qualsiasi prova il destino ci riservi io voglio essere all’altezza.