Insediamenti monastici nel territorio di Rocchetta Sant’Antonio (FG)
Il presente documento “Insediamenti monastici nel territorio di Rocchetta Sant’Antonio”, a cura di Alessandro Forlè, Preside in quiescenza, interessato alla storia del territorio, è la sintesi di una ricerca rigorosa ben più articolata.
L’interesse per l’argomento è conseguente ad una relazione tenuta il 21 giugno 2019, in occasione dell’anniversario della ricostruzione della Chiesa Matrice di Rocchetta Sant’Antonio.
L’autore, nella ricerca, focalizza l’attenzione sui Monasteri di Santo Stefano in Felceto e di Santa Maria in Giuncarico, situati nel territorio di Rocchetta Sant’Antonio, provincia di Foggia, facendo anche un cenno agli insediamenti monastici presenti nei territori limitrofi.
Riteniamo sia una lettura ricca d’interesse e di sollecitazioni, nonché un punto di partenza per ulteriori approfondimenti, per i lettori, per gli amanti della Storia del territorio e delle fonti che ne raccontano le origini, proprie di ogni Comunità. Abbiamo il piacere di pubblicare il documento, per gentile concessione dell’autore, Alessandro Forlè, ad uso gratuito e non esclusivo.
Per la ricorrenza dei duecentocinquanta anni dalla ricostruzione della Chiesa Matrice di Rocchetta, dedicata a Santa Maria Assunta, fare un, sia pur breve, cenno agli insediamenti monastici che sono stati presenti sul territorio, credo possa essere utile, non solo per l’importanza che hanno rivestito, ma anche perché la loro storia coincide, almeno per quel che riguarda i documenti, con quella della Comunità.
Il primo documento che cita il Monastero di S. Stefano, limitrofo al Monastero di Santa Maria in Giuncarico, risale alla “donazione di Arechi”, riportata, come dice Pasquale Rosario nella sua opera: “dall’Ofanto al Carapelle”, dal Di Meo, all’anno 774, e dallo stesso Di Meo ricostruita e tradotta.
In particolare, Arechi, Principe longobardo di Benevento, dona, in quella data, alla Chiesa di Santa Sofia di Benevento, da Egli fondata, il Monastero rurale di Sant’Abbondio (Sant’Antuono) nella valle del Calaggio, nei pressi del ponte Palino, su cui passava la Via Egnatia.
Il monastero, come dice il canonico Agnelli nella sua Storia di Sant’Agata, fu assegnato ai limitrofi conventi benedettini di San Pietro e Santa Maria d’Olivola.
Dona, anche, S. Pietro in Galo, che viene identificato dal Rosario con S. Pietro al Piano, in tenimento di Ascoli, dal confine Venatoris e,in effetti, nel contermine agro di Candela, vi è una collina chiamata “Serro della Caccia”.
Sempre in agro di Ascoli, venne donata ”Acquasanta”, con il quale toponimo potrebbero intendersi le Mefite di San Potito: particolarmente conosciute per le loro virtù curative, già in Epoca Arcaica.
Fanno parte, altresì, della donazione i monasteri di S. Mercurio e “Santo Stefano in Galdo nostro Felcine”, in località considerate sconosciute (anche perché il documento ha rivestito importanza soprattutto filologica e non storica), ma che abbiamo motivo di ritenere possa trattarsi di S. Mercurio, in agro di Candela, e Santo Stefano in Felceto, in agro di Rocchetta, poiché ancora adesso il bosco ove si trovano i ruderi si chiama Felceto.
Riguardo al Monastero di San Mercurio, i cui resti erano ancora visibili agli inizi del XIX sec., e nei cui pressi esisteva ancora una cappella, credo possa essere utile ricordare che prese tale nome nel 663, quando l’Imperatore Costante intraprese una campagna di guerra contro Romualdo, duca di Benevento, per la riconquista della Daunia.
Approdato a Taranto avanzò verso nord, impadronendosi di Salpi, Siponto, Monte Sant’Angelo e Lucera; solo Acerenza rimase inespugnata.
Durante tali operazioni si accampò sotto Candela, dove lasciò una reliquia di San Mercurio, il cui corpo aveva portato con sé da Cesarea a protezione dell’esercito, per cui la contrada assunse tale nome.
Dopo la presa di Lucera marciò su Benevento, lasciando altra reliquia a Quintodecimo (Mirabella). Ambedue le reliquie vennero poi trasferite a Benevento, nel 768 dal Duca Argisio.
I monasteri è probabile che siano stati assegnati dall’Arcidiocesi di Benevento: alquanto accentratrice, piuttosto che dalla Diocesi Suffraganea di Ascoli S., in quanto c’è da precisare che, in Italia, l’investitura religiosa (conferma) seguiva quella temporale, e ciò sino al Concordato di Worms (1122), il quale prevedeva, a differenza della Germania e del resto d’Europa, che l’investitura religiosa dovesse precedere quella temporale.
Arechi, duca di Benevento, aveva sposato Adelperga, figlia del re longobardo Desiderio, il quale intendeva unificare territorialmente la “Langobardia Maior” (Italia Settentrionale), con la “Langobardia Minor”, (ducato di Benevento; contea di Lucera e del Gargano e principato di Salerno), scontrandosi, così, con papa Adriano I, il quale, non intendendo che gli stati della Chiesa fossero costretti tra i territori del Regno d’Italia, chiamò i Franchi di Carlo, poi detto Magno, in soccorso.
Carlo, che aveva sposato Ermengarda: altra figlia di Desiderio, ripudiò la moglie, scese nella penisola e pose fine al Longobardo Regno d’Italia, assumendone egli stesso la corona.
Gli Italiani, che avevano sperato in un affrancamento dalla dominazione longobarda, si trovarono ad essere soggetti ad una nuova dominazione, che si aggiunse alla prima.
“Tornate alle vostre superbe ruine, all’opere imbelli dell’arse officine, ai solchi bagnati di servo sudor…”: dice, con amarezza, il Manzoni nel “Coro dell’Adelchi”.
Arechi, con realismo politico, unificò tutti i ducati della Langobardia Minor, eccezion fatta per il Ducato di Spoleto,nel Principato di Salerno, ridusse all’obbedienza i vari feudatari, recuperò molti beni feudali ed allodiali usurpati che, per bilanciarne il potere e ingraziarsi la Chiesa, diede in donazione o in beneficio alle abbazie benedettine, come sopra detto, unitamente a molti terreni che avevano fatto parte dell’ager publicus romano.
Il primo documento che parla della donazione di Santa Maria in Giuncarico attribuisce la stessa a Roberto del Torpo.
Infatti, nella raccolta riguardante i “Documenti Cavensi per la storia di Rocchetta San Antonio”, curata dal prof. Carmine Carlone, si legge che nel novembre, V indizione, del 4° anno di regno dell’imperatore Alessio I (n.d.r. Comneno), Roberto del Torpo, signore normanno di Lacedonia, alla presenza del longobardo Enrico, Conte di Lucera, offre all’Abbazia di Cava dei Tirreni la Chiesa di Santa Maria in Giuncarico, con tutte le pertinenze; l’atto viene fatto risalire al 1081.
Il sac. Giovanni Gentile, nella “Cronistoria di Rocchetta”, data tale donazione al 1085, forse, come ipotizza il prof. Carlone, per un mero errore di stampa; mentre il prof. Giovanni Vitolo, nella sua opera: “Insediamenti Cavensi in Puglia”, sostiene, in base al calcolo delle indizioni, che sia stata redatta nel 1082.
Il Gentile ritiene pure, essendo il documento datato con gli anni di regno dell’Imperatore Bizantino, che Roberto del Torpo fosse greco e non normanno.
Il prof. Carlone ipotizza, anche, che potrebbe trattarsi di un falso paleografico, risalente agli inizi del XIII secolo, quando, a fronte di vere e proprie spoliazioni, perpetrate dal Governo Angioino, per elargire benefici agli invasori francesi, anche a danno della stessa Chiesa, che pure ne aveva invocato l’intervento, bisognava giustificare e legittimare il possesso di determinati beni, specialmente se si trattava di beni feudali e ricevuti in “beneficio”, piuttosto che di beni allodiali.
Per il falso paleografico si espresse anche il prof. Enrico Cuozzo nel convegno tenutosi a Rocchetta nell’agosto del 1987, ravvisando l’errore del Sac. Gentile, circa la nazionalità di Roberto del Torpo, con il considerare essere prassi normale, per i Normanni, datare i loro documenti, oltre che con le indizioni, con gli anni di imperio dei sovrani bizantini.
Se ciò era vero anche a datare dall’adunanza tenutasi a Melfi nel 1042, quando i Normanni ricevettero, come narrano sia Leone Ostiense che l’Aimé, l’investitura delle 12 contee conquistate, tra cui: Venosa; Lavello; Ascoli S. e Frigento, da parte del longobardo Guaimario IV, il quale si dichiarava, a sua volta, vassallo dell’Imperatore Romano d’Oriente, non lo era più alla presunta data della donazione in argomento, in quanto il Principato, essendo stato conquistato dal Guiscardo, con la caduta di Salerno, il 13 dicembre del 1076, più non esisteva.
I Normanni, inoltre, dal giugno del 1080, dopo l’incontro di Aquino, si erano dichiarati vassalli del Papa e non certo più dell’Impero di Bisanzio.
Considerando, però, che era in corso una guerra intestina ai Normanni per motivi di successione dinastica, tra Abagelardo, figlio del defunto Duca Umfredo, alleato del longobardo Enrico, Conte di Lucera e del Gargano, e lo zio Roberto, detto il Guiscardo, all’epoca in guerra anche con l’Imperatore Alessio I, tutti i documenti redatti da Enrico e dai suoi baroni erano datati, a maggior ragione, secondo gli anni di regno di Alessio: di cui si dichiarava feudatario.
Si ha notizia, ancora, che il Conte Enrico nel 1089, possedendo molte terre nella città di Siponto, fa donazione di alcuni beni alla SS. Trinità di Venosa.
Sorge, di contro, una perplessità circa l’appartenenza di Lacedonia alla Contea di Lucera, e, quindi, circa l’autenticità del documento in parola, perché al termine della guerra intestina, vinta dal Guiscardo e da suo figlio Ruggero Borsa, tutti i baroni ribelli vennero puniti, molti anche con la pena capitale.
Narra, tra gli altri, Guglielmo Appulo che vennero date alle fiamme Troia e Ascoli, per aver aderito alla sedizione e molti cittadini vennero puniti con orrende mutilazioni: “ Diversis punit cruciatibus, huic manus, illi pes erat abscissus: hunc naso, testivus illum…”.
Risulta, invece, che i “del Torpo” fossero ancora titolari della baronia nel 1108: anno in cui Goffredo, figlio di Roberto, signore di Lacedonia, diede, con il vescovo Giacinto ed altri dignitari, il consenso alla donazione, da parte del giudice Maragdo, dello stradigoto Guisenolfo e di altri loro familiari, della Chiesa di San Nicola, ubicata nella valle dell’Osento, a Pietro Pappacarbone, abate di Cava, con tutti i beni, mobili ed immobili.
La cosa potrebbe spiegarsi con l’essere stata la Baronia di Lacedonia feudo di Erveo, conte di Frigento, compagno d’armi e sicuro alleato del Guiscardo, con cui era sceso dalla natia Normandia, e non del conte Enrico di Lucera.
Questa ipotesi: del Torpo barone di Erveo ed alleato del Guiscardo e non feudatario di Enrico di Lucera ed alleato di Abagelardo e dei Bizantini, avvalorerebbe la tesi del falso per corruzione paleografica
Lo stesso Goffredo, signore del castello di Sant’Antimo, nel luglio 1120, esenta il monaco Clemente, priore del convento di Santo Stefano, dalla tassa del plateatico e, nel 1124, offre, nelle mani dell’abate di Cava: Costabile, presso il convento di Santo Stefano, parte dei suoi beni feudali attinenti al castello di Rocca.
Particolarmente importante è tale donazione, poiché fissa, con estrema precisione quelli che saranno i confini delle terre appartenenti al convento.
Tali confini, sintetizzo, partono dal vallone sottostante al convento, proseguono per il vallone del Dragone, fino alle terre dell’Abbazia (all’epoca ancora basiliana n.d.r.) di Santa Maria de Pescolo, in agro di Candela, quindi, per Pietra Longa, vanno al vallone Burzacchera (verso il Casale di Santo Stefano, n.d.r.), discendono alla via che fiancheggia l’Ofanto (a cui adesso è sovrapposta la ferrovia, n.d.r.) e, per le Ische, giungono al ponte (all’epoca) rotto; risalgono, quindi, per il vallone dell’Ungula Cervina (attuale vallone di Capo Diavolo: l’ungula cervina, dial. “ogna spaccata”, sta, appunto, per significare il diavolo, n.d.r.) fino alla Pietra Chianca e, da quel luogo, per il ginestraio, ritornano al punto di partenza.
Prima delle concessioni e delle donazioni di Goffredo del Torpo, c’era stata la donazione all’abate Pietro del Monastero di Santa Maria in Giuncarico, avvenuta nel maggio 1085, da parte di Desiderio, Vescovo di Lacedonia, il quale legittima, nell’atto, la donazione con l’affermare che tale monastero era “non solum rebus pauper, verum etiam eos a quibus colitur incomposite vivere comperimus”.
Sorge spontaneo chiedersi chi fossero coloro che amministravano in maniera “scomposta” il monastero, che, con ogni evidenza esisteva già da tempo e la risposta non può che riguardare la politica cosiddetta del Rekatholisierung, seguita dai papi e dai duchi normanni, intesa ad allargare la giurisdizione degli abati benedettini e della Chiesa Cattolica in genere, per contrastare la Chiesa Ortodossa nei territori conquistati.
Si veniva, così, a rompere un equilibrio durato secoli, quando, vale a dire, i confini tra i territori amministrati dai Longobardi e quelli amministrati dai Bizantini fluttuavano continuamente a seguito delle continue guerre e dei successivi trattati di pace, per cui le gerarchie delle due Chiese: la Cattolica e la Ortodossa, avevano trovato, al di là delle instabili situazioni politiche, un equilibrio.
Tale equilibrio consentiva, nei territori longobardi, un controllo amministrativo delle istituzioni ortodosse, le quali, per le cose spirituali, facevano capo al vescovo di Oria, e il contrario era per le istituzioni cattoliche nei territori amministrati dai Bizantini.
Anche l’atto di oblazione, datato gennaio 1087, della Contessa Gaitelgrima, secondo alcuni figlia di Roberto il Guiscardo e, comunque, vedova dei conti Drogone, Roberto ed Affredo, del monastero di Santo Stefano, riportano, come beneficiario, “Petrus eximius Abbas”di Cava dei Tirreni.
Credo sia utile ricordare che l’Abate Pietro Pappacarbone, santificato nel 1893, era stato, a Cluny, maestro dei futuri papi: Urbano II e Gregorio VII ed è considerato, con San Pier Damiano e, naturalmente, con i pontefici dell’epoca, uno degli artefici della rinascita della Chiesa nell’XI secolo.
Riporta l’Ughellio: “Petrus Salernitanus…Episcopus Policastrensis…Episcopatu relicto, claruit ab anno Dom. 1079, usque ad 1123… Huic ab Urbano II, concessas fuit usus Mitrae in Concilio Melphitano, dum esset Abbas Cavensis, quod abbatibus non licebat”.
Il Papa volle conferirgli anche la dignità episcopale mentre era abate, la qual cosa non era lecita, e ciò, evidentemente a conferma della stima e devozione che provava per il suo maestro e per il sostegno dato ai pontefici nel corso della guerra per le investiture e dello scisma fomentato da Enrico Imperatore di Germania con la nomina di tale Gilbero a Papa, il quale, come antipapa, assunse il nome di Clemente III.
Al 21 settembre del 1089 risale la bolla emessa a Venosa, dove si era recato, dopo il Concilio di Melfi, a sistemare le cose temporali, da Urbano II, per ripagare l’appoggio che l’Abbazia di Cava assicurava alla Prima Crociata, in quel tempo in via di organizzazione, tramite la propria flotta, già appartenuta a quello che era stato il Principato di Salerno.
I Longobardi e i Bizantini, che avevano, mentre si combattevano fra di loro, chiamato, dalla Francia, come mercenari, i Normanni, erano stati: i primi cacciati dalla Penisola, i secondi sottomessi dai Normanni stessi; era scomparso, così, anche il Principato di Salerno.
Con questa bolla il Papa moltiplicò le dipendenze territoriali dell’abbazia e, fra i molti monasteri, confermò S. Antimo in Rocca con Santo Stefano e Santa Maria in Giuncarico.
Lo stesso fa, il 29 agosto 1100 il Pontefice Pasquale II, dicendoli esistenti “prope Castrum Sancti Antimi”.
Alle calende di ottobre del 1089, Papa Urbano II confermò a Pietro Pappacarbone, già vescovo di Policastro, tra gli altri monasteri e donazioni, i monasteri di S. Pietro e Santa Maria d’Olivola, in tenimento di Sant’Agata.
Dai due diplomi papali si desume, perciò, che, alla fine del sec. XI , si era ormai chiaramente costituita una realtà territoriale, delineata già sotto il Governo Bizantino, che faceva capo alla Rocca Sant’Antimo, distinguendosi dai finitimi ambiti di Candela e Lacedonia.
A Gualtiero, priore di Santo Stefano in Felceto, sarebbero stati concessi, nell’aprile del 1166, da Tancredi, figlio di Mauro di Bocco, da Gaitelgrima, moglie di Riccardo Sicandro, un altro pezzo di terra in contrada Macchialupo.
Al 1221 risale la concessione della contessa Magalda di Balvano: non si tratta di una donazione, ma consiste nella possibilità di esercitare l’uso civico (acquare, legnare ed accendere fuochi) nei suoi terreni del Moniteto, del Cerreto e della Valle Guidonis, dei quali ultimi due toponimi non si conosce l’ubicazione.
A mio avviso potrebbe trattarsi dei territori che da S. Martino scendono sino al vallone di S. Gennaro e, della valle sottostante, per Pietrafessa (Montagna spaccata), risalendo le Coste e il Moniteto, vanno ad unirsi ai terreni di Macchialupo, già concessi, nel 1163, da Goffredo, giudice di Lacedonia, al vestiario di Cava, Giovanni, che risiedeva in quel tempo a S. Stefano.
Viene, altresì, riconosciuto il diritto di pascolo agli abitanti dei casali, al prezzo di due corbelle di frumento e due di orzo, all’anno, per ogni “aratro”, con il quale termine si indicavano due muli, e al prezzo di una corbella di orzo e una di frumento per ogni “mezzo aratro”, con cui si indicava un mulo.
Vari erano i prezzi che bisognava pagare per altre bestie, e andavano da una gallina ad un agnello e loro multipli.
I monasteri di Santa Maria in Giuncarico e Santo Stefano in Felceto, ubicati in siti ameni, divennero centri di attività e asilo per quanti, artigiani e contadini, volevano sottrarsi alle angherie dei signori feudali, tanto che fiorirono, specialmente in epoca fredericiana, in ricchezza e numero di abitanti, i due casali dipendenti.
Quando, infatti, l’Abate Rainoldo fece un giro per le dipendenze dell’Abbazia, trovò, solo in Santo Stefano, tra il casale e il monastero, sessantuno famiglie e dieci ecclesiastici, di cui tre sacerdoti quattro diaconi e tre suddiaconi.
Riguardo a Federico II: “Tutti nemici – dice Giustino Fortunato – i feudatari, gli ecclesiastici, i monaci del Vulture, di Santo Stefano di Giuncarica, di San Michele di Monticchio…., contro i quali Egli ha voluto a bella posta innalzare ed arricchire i frati dell’Ordine Teutonico di Torre Alemanna, presso Corleto di Puglia”.
Non sempre, però, i rapporti con Federico furono conflittuali, infatti si ha notizia di due diplomi di Federico II, del 1221 e 1231, con cui si confermano come possedimenti di Cava i due casali.
Nella nostra zona, ad esempio, Richerio, Vescovo di Melfi: illustre giurista, una delle figure più eminenti della Corte Sveva, essendo rimasto Melfi isolato nelle sue comunicazioni con la Puglia, provvide, nel 1224, a spese della Diocesi, alla riparazione del ponte di Santa Venere sull’Ofanto, su cui transitavano sia la Via Appia che la Herculia, mentre l’Imperatore provvedeva alla riparazione del ponte traianeo tra Camarda e Farascuso.
Dopo tali riparazioni rifiorirono i traffici, anche di pellegrini che si recavano a San Michele in Vulture, alla Madonna di Pierno, alla Madonna di Viggiano, al Goleto, a Monte Vergine e ad altri santuari della zona, tanto che venne riattata la taverna che si trovava vicino al mulino prospiciente il ponte di Santa Venere, proprietà del monastero di Santo Stefano.
Fondamentale era e, a mio avviso, è, per gli scambi culturali, il movimento dei pellegrini: “L’Europa va formandosi sulle vie di pellegrinaggio”, dice Wolfgang Goethe.
Provvide, anche, al trasferimento, a causa dell’insalubrità del sito, delle monache virginiane di Palo Rotondo, confinante sia con il casale di Santa Maria che con il casale di Santo Stefano, iuxta pontem Aufidi, a San Giovanni in Illiceto, inter Melfiam et flumen Aufidi, come si evince dal “Cartulario del Vulture”.
Dove fosse ubicato San Giovanni in Illiceto non mi è dato sapere, anche se potrei avanzare un’ipotesi al riguardo, ma si tratterebbe solo di una ipotesi da suffragare.
La Chiesa di Santa Venere venne confermata, nel 1225: lo riporta il Prof. Tommaso Pedio nella sua opera “La Basilicata nell’età Sveva”, da Enrico di Chavreuse, signore di Rapolla e di Cisterna, barone di Balvano, ad Andrea, Arcivescovo di Conza.
Cisterna era una città antichissima, sino al nono secolo sede vescovile; i ruderi, (vale la pena dirlo) ancora evidentissimi e molto suggestivi, si trovano a circa tre Km. dalla Stazione F.S. di Rocchetta, in quel che resta del bosco che dalla città stessa prende il nome, su una ridente collina sovrastante il percorso di quella che fu la Via Herculia.
Iniziò un periodo di decadenza, per l’eccessivo fiscalismo, con gli Angioini, per cui, nel 1495 il Priore, Frate Pietro Crispus, reggeva ambedue i casali.
In effetti, i Francesi, chiamati, contro gli ultimi sovrani della Casa degli Hohenstaufen, dal francese Papa Urbano IV, conquistarono il Regno di Sicilia e si diedero ad una sistematica spoliazione dell’Italia Meridionale, in spregio ad ogni legge: i sudditi, spesso, non erano padroni nemmeno della loro vita.
Si dichiararono vassalli del Papa; “in seguito, però -come dice G. Vitolo nell’opera citata- gli attacchi ai diritti monastici si fecero sempre più insistenti: già agli inizi del 1270 il nuovo signore di Rocchetta e Lacedonia, Diopoldo de Dragone, aveva rimesso in discussione le concessioni operate dai suoi predecessori a favore della Chiesa e degli abitanti di Santo Stefano…”.
Ci furono varie liti per la definizione dei confini dei due casali, finché, a causa della decadenza, nel 1298, Santo Stefano venne concesso ad un certo Costantino, oblato cavense e il casale di Santa Maria a Federico de Torgisio e, nel 1324, fu dato in affitto a Giovanni de Apia.
In quegli anni di decadenza il convento e la Chiesa furono affidati a degli oblati; le Messe continuarono ad essere officiate, anche se non con continuità, volte da qualche monaco di Cava, volte dai sacerdoti di Rocchetta, in quanto la Chiesa di Santa Maria, ove vi era un quadro della Vergine ed una statua di singolare bellezza, era considerata un santuario ove, recandosi, in stato di grazia, il giorno dell’Immacolata, si poteva lucrare l’Indulgenza Plenaria.
Nel corso del XVIII sec. Il Monastero di S. Stefano doveva essere già in rovina, giacché le visitazioni apostoliche erano fatte solo a S. Maria.
I terreni furono dati in fitto e gli abitanti si trasferirono a Rocchetta; la situazione si protrasse sino alla prima alienazione dei feudi, avvenuta, con i Napoleonidi a partire dal 1807.
Il Monastero di S. Maria era stato già venduto ad una famiglia del posto che l’aveva trasformato in una comoda palazzina di campagna, ancora attualmente in ottimo stato di conservazione, con l’annessa Chiesa, che continua ad essere frequentata, nelle ricorrenze, dalla gente del luogo e dei paesi vicini.
Allorché si provvede a sfoltire il sottobosco è possibile riconoscere il primitivo, ampio perimetro murario e le mura di sostruzione del lato EST.
Bellissima è ancora la statua della Vergine, anche se ridipinta, nel corso del XVIII sec., con colori impropri da un artefice, incaricato, come dice la Cronistoria, da qualche eremita, a cui, andati via i monaci, era affidata la Chiesa.
Nella Chiesa Madre è custodita un’antica erma (mezzobusto) di San Gennaro, la cui devozione risale agli albori del monastero e il cui nome è stato dato ad un ruscello che segnava i confini con i terreni appartenenti a Santo Stefano.
Alessandro Forlè
Per la presente ricerca sono stati consultati i seguenti testi:
- la Cronistoria di Rocchetta del Sac. Giovanni Gentile;
- documenti Cavensi per la storia di Rocchetta Sant’Antonio del Prof. Carmine Carlone;
- insediamenti Cavensi in Puglia, del Prof. Giovanni Vitolo;
- relazione tratta dagli Atti di Capitanata, convegno di studi del 14/08/2009, del Prof. S. Zotta;
- dall’Ofanto al Carapelle, del Dott. Pasquale Rosario;
- la Basilicata nell’età sveva del Prof. Tommaso Pedio;
- Il Castello di Lagopesole e varie opere di Giustino Fortunato;
- Alle origini di Rocchetta Sant’Antonio, del Prof. Enrico Cuozzo e di A. Forlè.
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