Il Barone Rampante è il secondo, e sicuramente il miglior romanzo della trilogia I Nostri Antenati scritta e pubblicata da Italo Calvino nel 1957.
Il libro è semplice, un racconto originale che con l’ironia e la leggerezza del suo linguaggio impediscono ai momenti drammatici di prendere il sopravvento pur trattando argomenti come l’accettazione delle diversità, il rifuggire dalla normalità e dagli schemi prefissati dalla società.
L’abilità di Italo Calvino sta proprio nel gioco letterario di offrire ai ragazzi una facile quanto divertente lettura senza tralasciare temi importanti adatti ad una riflessione più approfondita.
Il romanzo narra la storia di un adolescente di 12 anni, Cosimo, figlio del barone di un paese della Liguria, che, stanco della vita piena di regole e costrizioni, decide, come segno di protesta, di andare a vivere sugli alberi e di non scendere mai più.
Dapprima Cosimo conosce Violante, una bambina, di cui si innamora perdutamente; ma in seguito questa parte, spezzandogli il cuore.
Negli anni seguenti Cosimo si adatta alla vita sugli alberi sopravvivendo grazie alla caccia e vivendo molte avventure e molti avvenimenti: lotta contro i pirati, legge molti libri diventando un filosofo conosciuto in tutta Europa, conosce un pericoloso brigante, che riesce a redimere grazie alla cultura ma che vede poi morire sulla forca, fonda una squadra di vigili del fuoco, incontra un gruppo di persone spagnole che come lui vivono sugli alberi e conosce Ottimo Massimo, il cane che gli tiene compagnia per molti anni. Un giorno Violante ritorna a casa, e tra i due nasce un grande amore, che però si conclude male e quindi la ragazza riparte.
Cosimo passa tranquillamente gli ultimi anni della sua vita e alla fine muore.
Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così.
Estratto:
Cosimo tutti i giorni era sul frassino a guardare il prato come se in esso potesse leggere qualcosa che da tempo lo struggeva dentro: l’idea stessa della lontananza, dell’incolmabilità, dell’attesa che può prolungarsi oltre la vita.
Un giorno Cosimo guardava dal frassino. Brillò il sole, un raggio corse sul prato che da verde pisello diventò verde smeraldo. Laggiù nel nero del bosco di querce qualche fronda si mosse e ne balzò un cavallo. Il cavallo aveva in sella un cavaliere, nerovestito, con un mantello, no: una gonna; non era un cavaliere, era un’amazzone, correva a briglia sciolta ed era bionda.
A Cosimo cominciò a battere il cuore e lo prese la speranza che quell’amazzone si sarebbe avvicinata fino a poterla veder bene in viso, e che quel viso si sarebbe rivelato bellissimo. Ma oltre a quest’attesa del suo avvicinarsi e della sua bellezza c’era una terza attesa, un terzo ramo di speranza che s’intrecciava agli altri due ed era il desiderio che questa sempre più luminosa bellezza rispondesse a un bisogno di riconoscere un’impressione nota e quasi dimenticata, un ricordo di cui è rimasta solo una linea, un colore e si vorrebbe far riemergere tutto il resto o meglio ritrovarlo in qualcosa di presente.
E con quest’animo non vedeva l’ora che ella s’avvicinasse al margine del prato vicino a lui, dove torreggiavano i due pilastri dei leoni; ma quest’attesa cominciò a diventare dolorosa, perché s’era accorto che l’amazzone non tagliava il prato in linea retta verso i leoni, ma diagonalmente, cosicché sarebbe presto scomparsa di nuovo nel bosco.
[…]
Ecco, in men che Cosimo s’aspettasse, la donna a cavallo era giunta al margine del prato vicino a lui, ora passava tra i due pilastri sormontati dai leoni quasi fossero stati messi per farle onore, e si voltava verso il prato e tutto quello che v’era al di là del prato con un largo gesto come d’addio, e galoppava avanti, passava sotto il frassino, e Cosimo ora l’aveva vista bene in viso e nella persona, eretta in sella, il viso di donna altera e insieme di fanciulla, la fronte felice di stare su quegli occhi, gli occhi felici di stare su quel viso, il naso la bocca il mento il collo ogni cosa di lei felice d’ogni altra cosa di lei, e tutto tutto tutto ricordava la ragazzina vista a dodici anni sull’altalena il primo giorno che passò sull’albero: Sofonisba Viola Violante d’Ondariva.
Questa scoperta, ossia l’aver portato questa fin dal primo istante inconfessata scoperta al punto di poterla proclamare a se stesso, riempì Cosimo come d’una febbre. […] Cosimo si disse:
«Andrò in un posto che se è lei ci verrà. Anzi, non può essere qui che per andarci». E saltando per le sue vie, andò verso il vecchio parco abbandonato dei d’Ondariva.
In quell’ombra, in quell’aria piena d’aromi, in quel luogo dove le foglie e i legni avevano altro colore e altra sostanza, si sentì così preso dai ricordi della fanciullezza che quasi scordò l’amazzone, o se non la scordò si disse che poteva pure non essere lei e tanto già esser vera quest’attesa e speranza di lei che quasi era come se lei ci fosse.
Ma sentì un rumore. Era lo zoccolo del cavallo bianco sulla ghiaia. Veniva per il giardino non più di corsa, come se l’amazzone volesse guardare e riconoscere minutamente ogni cosa….
La vide: faceva il giro della vasca, del chioschetto, delle anfore. Guardava le piante divenute enormi, con pendenti radici aeree, le magnolie diventate un bosco. Ma non vedeva lui, lui che cercava di chiamarla col tubare dell’upupa, col trillo della pispola, con suoni che si perdevano nel fìtto cinguettìo degli uccelli del giardino.
Era smontata di sella, andava a piedi conducendosi dietro il cavallo per le briglie. Giunse alla villa, lasciò il cavallo, entrò nel portico. Scoppiò a gridare: – Ortensia! Gaetano! Tarquinio! Qui c’è da dare il bianco, da riverniciare le persiane, da appendere gli arazzi! E voglio qui il tavolo, là la consolle, in mezzo la spinetta, e i quadri sono tutti da cambiar di posto.
Cosimo s’accorse allora che quella casa che al suo sguardo distratto era parsa chiusa e disabitata come sempre, era invece adesso aperta, piena di persone, servitori che pulivano, rassettavano, davano aria, mettevano a posto mobili, sbattevano tappeti. Era Viola che ritornava, dunque. Viola che si ristabiliva a Ombrosa, che riprendeva possesso della villa da cui era partita bambina! E il batticuore di gioia in petto a Cosimo non era però molto dissimile da un batticuore di paura, perché esser lei tornata, averla sotto gli occhi così imprevedibile e fiera, poteva voler dire non averla mai più, nemmeno nel ricordo, nemmeno in quel segreto profumo di foglie e color della luce attraverso il verde, poteva voler dire che lui sarebbe stato obbligato a fuggirla e così fuggire anche la prima memoria di lei fanciulla.
Con quest’alterno batticuore Cosimo la vedeva muoversi in mezzo alla servitù, facendo trasportare divani clavicembali cantoniere, e poi passare in fretta in giardino e rimontare a cavallo, rincorsa dallo stuolo della gente che attendeva ancora ordi¬ni, e adesso si rivolgeva ai giardinieri, dicendo come dovevano riordinare le aiole incolte e ridisporre nei viali la ghiaia portata via dalle piogge, e rimettere le sedie di vimini, l’altalena…
Dell’altalena indicò, con ampi gesti, il ramo dal quale era appesa una volta e doveva esser riappesa ora, e quanto lunghe dovevano essere le funi, e l’ampiezza della corsa, e così dicendo col gesto e lo sguardo andò fino all’albero di magnolia sul quale Cosimo una volta le era apparso. E sull’albero di magnolia, ecco, lo rivide.
[…]
Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così.
Italo Calvino, da “Il barone rampante”