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Aspetta primavera, Bandini – John Fante

John Fante - Aspetta primavera, BandiniPietra miliare della letteratura nord-americana, “Aspetta primavera, Bandini” mostra con perfetto realismo le vicende di una famiglia italiana in Colorado e le difficoltà di integrazione. Un libro per conoscere meglio luci ed ombre del passato dei nostri antenati emigrati all’estero e per provare a capire l’altrettanto difficile presente degli immigrati in cerca di speranza nel nostro Paese, spesso un po’ smemorato. Bello ed emozionante. Ben scritto. Un libro che parla in modo autentico di noi italiani. 

 Prefazione.  
Ora che sono  vecchio  non  posso  ripensare  ad  “Aspetta  primavera, Bandini” senza smarrirne le tracce nel passato.  Certe notti, a letto una frase,  un paragrafo  o  un  personaggio  di  questa  prima  opera m’ipnotizza  e  nel  dormiveglia  mi  ritrovo  a  ricucirne  le  frasi ricavando il ricordo melodioso di una  vecchia  camera  da  letto  nel Colorado, o di mia madre e mio padre oppure dei miei fratelli e di mia sorella.  Non riesco a convincermi che una cosa scritta tanto tempo fa mi risulti  così  dolce  nel  dormiveglia  e  tuttavia  non  riesco  a guardarmi  indietro,  riaprendo e rileggendo il mio primo romanzo.  Ho paura,  non sopporto l’idea di vedermi sotto la luce della  mia  prima opera.  Sono  certo  che  non la rileggerò più.  Di una cosa però son sicuro: tutta la gente della mia  vita  di  scrittore,  tutti  i  miei  personaggi  si ritrovano in questa mia prima opera.  Di me non c’è più niente, solo il ricordo di vecchie camere da letto, e il ciabattare di mia madre verso la cucina.
John Fante.

E all’improvviso, in quell’aula semibuia, s’abbandonò al pianto, singhiozzando per espellere la povertà, piangendo e ansimando, non per quell’espressione, non per lei, per sua madre, ma per Svevo Bandini, per suo padre, per l’aspetto del padre, per le mani nodose di suo padre, per gli attrezzi da muratore di suo padre, per i muri costruiti da suo padre, per i gradini, i cornicioni, i cenerai e le cattedrali, tutti bellissimi, per quel che sentiva quando suo padre cantava dell’Italia, del cielo italiano, della baia di Napoli.

Estratto

[…] Eccola, proprio di fronte a lui, la sua bellissima Rosa Pinelli, il suo grande amore, la sua ragazza. Oh tu, macchina per il cotone! Oh tu, meraviglioso Eli Whitney! Oh Rosa, quanto sei meravigliosa! Ti amo, Rosa, ti amo, ti amo, ti amo!
Era italiana, certo; ma cosa poteva farci lei? C’entrava forse più di quanto c’entrasse lui? Oh, guardate quei capelli! Guardate quelle spalle! E quel suo grazioso abitino verde! Ascoltate quella voce! Oh, Rosa! Diglielo, Rosa! Parlagli della macchina per il cotone! Lo so che mi odii, Rosa. Ma io ti amo, Rosa. Ti amo, e un giorno mi vedrai giocare da esterno centro nei New York Yankees, Rosa. Sarò lì, all’esterno centro tesoro, e tu sarai la mia ragazza, seduta in una tribuna poco distante dalla terza base; io entrerò in campo nella seconda metà del nono inning e gli Yankees saranno sotto di tre punti. Ma non preoccuparti, Rosa! Farò fuori tre avversari, ti guarderò, e tu mi lancerai un bacio e io spedirò fuori campo quella maledetta pallina. Passerò alla storia, tesoro. Se tu mi baci, passerò alla storia!
“ARTURO BANDINI!”
Non avrò più neppure le lentiggini, Rosa. Saranno sparite; spariscono sempre quando si diventa adulti.
“ARTURO BANDINI!”
Cambierò anche nome, Rosa. Mi chiameranno il Favoloso, il Bambino Favoloso; Art, il Battitore Bandito…
“ARTURO BANDINI!”
Stavolta sentì. Il clamore della folla delle World Series era sparito. Alzò gli occhi in tempo per vedere suor Mary Celia sporgersi battendo un pugno sulla cattedra, l’occhio sinistro ammiccante. Lo fissavano tutti quanti, compresa la sua Rosa, che lo derideva; sentì come una voragine al posto dello stomaco, quando si rese conto di avere espresso ad alta voce le sue fantasie. I compagni potevano anche ridere, non gliene importava niente, ma Rosa, ah Rosa, la sua risata era più pungente delle altre, lo feriva, e lui sentì di detestarla: quella terrona, figlia di uno schifoso minatore di carbone italiano che lavorava in quel postaccio di Louisville: un maledettissimo sporco minatore di carbone. Si chiamava Salvatore, Salvatore Pinelli, di così basso rango da dover lavorare in miniera. Sarebbe mai stato in grado di costruire un muro che durasse anni e anni, cento, duecento anni? No, quello scimunito di italiano aveva un piccone e un elmetto a lampada, e doveva scendere nelle viscere della terra a vivere la sua vita di schifoso topo terrone. Lui si chiamava Arturo Bandini, e se c’era qualcuno in quella scuola che aveva da ridire, che parlasse, e si sarebbe trovato col naso rotto. “ARTURO BANDINI!”
“Okay” rispose strascicando le parole. “Okay, suor Celia, l’ascolto”. Poi si alzò. Aveva addosso gli occhi di tutti. Rosa sussurrò qualcosa alla compagna seduta alle sue spalle, ridacchiando dietro la mano.
Arturo vide e fu tentato di urlarle contro, convinto che lei avesse criticato le sue lentiggini, o il rattoppo sulle ginocchia, o i suoi capelli che avevano bisogno del barbiere, o la vecchia camicia del padre, riadattata alla meglio, che non gli stava certo a pennello.
“Bandini” disse suor Celia. “Tu sei, senz’ombra di dubbio un cretino fatto e finito. Vi avevo avvertiti. La tua stupidità verrà ricompensata. Resterai in classe fino alle sei”.
Bandini si rimise a sedere, mentre la campanella delle tre risuonava isterica nei corridoi.

Arturo era solo, con suor Celia alla cattedra, impegnata a correggere i compiti. La monaca lavorava dimentica di lui, la palpebra sinistra sempre irritata. Un sole malato apparve a sud ovest, più simile a una stanca luna nel pomeriggio invernale. Lui se ne stava col mento appoggiato a una mano, gli occhi fissi sul sole freddo. Fuori dalle finestre, gli abeti sembravano più gelati che mai sotto il bianco fardello. Dalla strada arrivava il grido di un ragazzo, seguito dallo sferragliare delle catene da neve di un’auto Detestava l’inverno. Non gli era difficile raffigurarsi il campo da baseball dietro la scuola, sepolto sotto la neve, con la casa base cancellata dalla spessa coltre. Uno scenario squallido, tristissimo. Cosa si poteva fare d’inverno? Non gli dispiaceva starsene chiuso in classe, la punizione lo divertiva. Dopo tutto era un posto come un altro.
“Vuole che faccia qualcosa di particolare, sorella?” chiese. Senza alzare gli occhi dal suo lavoro, la suora gli rispose: “Voglio solo che tu rimanga zitto e buono, se possibile”.
Arturo sorrise pigramente: “Okay, sorella”.
Rimase zitto e buono per dieci minuti.
“Sorella,” disse “vuole che le pulisca la lavagna?”
“Paghiamo già una persona per farlo. Anzi sarà meglio precisare che la strapaghiamo”.
“Le piace il baseball, sorella?”
“Il mio sport preferito è il football. Odio il baseball. Mi annoia”.
“E’ solo perchè lei non conosce le finezze del gioco”.
“Buono, Bandini. Se non ti spiace”.
Arturo cambiò posizione, appoggiando il mento sulle braccia conserte per osservare attentamente la suora. La palpebra sinistra non aveva un attimo di requie. Chissà perchè aveva quell’occhio di vetro. Sospettava da sempre che l’avesse colpita una palla da baseball.
Adesso ne era quasi sicuro. Suor Mary Celia era arrivata al Santa Caterina da Fort Dodge, nell’Iowa. Chissà come giocavano a baseball nell’Iowa? Chissà se c’erano molti italiani da quelle parti?
“Come sta tua madre?” gli chiese la suora.
“Non saprei. Bene, immagino”.
Per la prima volta la suora alzò gli occhi dal suo lavoro per fissarlo. “Cosa significa “immagino”? Non lo sai? Tua madre è una gran brava persona. Ha l’anima di un angelo”.
Per quel che ne sapeva, lui e i suoi fratelli erano gli unici studenti non paganti di quella scuola cattolica. La retta era di due soli dollari al mese, cioè sei ogni trenta giorni fra lui e i suoi due fratelli, mai pagati. Era una differenza che lo tormentava: sapere che gli altri pagavano e lui no. Di tanto in tanto, sua madre infilava un paio di dollari in una busta e gli chiedeva di consegnarla alla superiora, a mo’ di acconto. Situazione ancora più odiosa. Rifiutava sempre veementemente. August, invece, non aveva problemi a consegnare quelle rare buste, anzi ne era tutto contento. Arturo detestava il fratello per questo, per il suo parlare della loro povertà, per la sua insistenza nel ricordare alle suore che erano dei poveracci. Non aveva mai voluto andare a scuola dalle suore.  L’unica cosa che  la  rendeva tollerabile  era  il  baseball.  Quando  suor Celia gli diceva che sua madre aveva un’anima bella, lui capiva cosa intendeva: sua madre aveva grande coraggio e spirito  di  sacrificio,  come  dimostravano  quelle buste.  Per  lui,  il coraggio non c’entrava.  Era orribile,  odioso, rendeva lui e i suoi fratelli diversi dagli altri.  La ragione non  la conosceva,  ma c’era,  era la sensazione della loro diversità. Oltre a ciò nel quadro s’inserivano anche le sue lentiggini,  la necessità  di un taglio di capelli, la toppa sui pantaloni e le origini italiane.
“Va a messa la domenica tuo padre, Arturo?”
“Certo”.
La  parola  gli  uscì strozzata.  Perchè era costretto a mentire?  Suo padre andava a messa solo per Natale e qualche volta a Pasqua. Bugia o non bugia, era contento che suo padre trascurasse la messa. Non sapeva perchè, ma era contento. Ricordava perfettamente la giustificazione di suo padre. Svevo aveva detto: se Dio è ovunque,  perchè devo andare in chiesa ogni domenica?  Cosa mi impedisce di andare invece all’Imperial Poolhall?  Dio non è presente anche laggiù?  Sua madre fremeva  sempre d’orrore  di  fronte  a  quei  saggi  teologici,  ma  Arturo ricordava perfettamente quanto fosse debole la sua risposta,  la stessa risposta che  lui  aveva  imparato  a catechismo,  la stessa che la madre aveva imparato  anni  prima  dal  medesimo  catechismo:  era  dovere  d’ogni cristiano andare a messa la domenica.  Quanto a lui, ci andava solo di tanto in tanto. Quando però lo faceva lo coglieva una paura folle,  si sentiva  depresso  e  spaventato  finchè non andava ad alleggerirsi la coscienza in confessionale.
Alle quattro e mezzo, suor Celia finì di correggere i compiti.  Lui se ne  stava  seduto,  avvilito  ed  esausto,  per  l’impazienza  di  far qualcosa, qualsiasi cosa.  L’aula era quasi al buio.  La luna si  era fatta  largo a fatica nel cielo cupo orientale e s’avviava a diventare una luna bianca,  se fosse riuscita  a  sbarazzarsi  del  tutto  delle nuvole.  
L’aula  immersa nella penombra gli metteva una gran tristezza addosso.  Era una  stanza  fatta  per  le  suore,  per  i  loro  passi silenziosi,  lievi.  I banchi  vuoti  gli  parlavano  tristemente dei ragazzi che se ne erano andati;  il suo sembrava simpatizzare con lui, la  sua  calda  intimità gli suggeriva di andarsene a casa,  tanto non avrebbe avuto problemi a restarsene solo con gli altri. Scrostato, con le iniziali di Arturo intagliate, scolorito e macchiato d’inchiostro, il banco era stanco di lui,  come lui del banco. Ormai praticamente si odiavano, pur facendo entrambi esercizio di pazienza.
Suor Celia s’alzò, riordinando i compiti.
“Puoi uscire alle cinque. A una condizione, però…”
Il letargo aveva annullato ogni curiosità riguardo alla condizione posta. Mezzo sdraiato, i piedi attorcigliati al banco davanti, poteva solo cuocere nel proprio disgusto.
“Voglio che tu esca alle cinque per recarti a far visita al Santissimo Sacramento e preghi la Vergine Maria perchè benedica tua madre e le conceda tutta la felicità che merita… poveretta”.
E se ne andò. Poveretta. Sua madre, una poveretta. Quelle parole lo ridussero a una disperazione tale da riempirgli gli occhi di lacrime. Ovunque, la stessa storia, sempre sua madre, la poveretta, sempre povertà e povertà, sempre quella parola, dentro di lui e intorno a lui. E all’improvviso, in quell’aula semibuia, s’abbandonò al pianto, singhiozzando per espellere la povertà, piangendo e ansimando, non per quell’espressione, non per lei, per sua madre, ma per Svevo Bandini, per suo padre, per l’aspetto del padre, per le mani nodose di suo padre, per gli attrezzi da muratore di suo padre, per i muri costruiti da suo padre, per i gradini, i cornicioni, i cenerai e le cattedrali, tutti bellissimi, per quel che sentiva quando suo padre cantava dell’Italia, del cielo italiano, della baia di Napoli.
Alle cinque meno un quarto il dolore si dissolse. Ormai l’aula era quasi completamente immersa nel buio. Si ripulì il naso con la manica e sentì una speciale contentezza lievitargli dentro, una sensazione positiva, un’irrequietezza, che resero inesistenti i quindici minuti successivi. Avrebbe voluto accender la luce, ma la casa di Rosa s’ergeva oltre lo spazio vuoto dall’altra parte della strada, e le finestre della scuola si vedevano dal cortile di casa sua. Se lei avesse visto la luce accesa, si sarebbe ricordata di lui, ancora relegato in classe.
Rosa, la sua ragazza. Lei lo detestava, ma era la sua ragazza. Chissà se sapeva che lui l’amava? Si spiegava forse così l’odio che provava per lui? Chissà se riusciva ad intravedere tutti i misteri che lui aveva dentro e per questo lo derideva? Si portò accanto alla finestra e vide la luce della cucina di Rosa. Laggiù, sotto quella luce, Rosa camminava, respirava. Forse era impegnata a fare i compiti, perché Rosa era una ragazza molto studiosa, la prima della classe.
Voltate le spalle alla finestra, s’avvicinò al banco di Rosa. Era diverso da tutti gli altri dell’aula: più lindo, più femminile, col ripiano più lucente e meno screpolato. S’accomodò nel banco di lei e la sensazione gli diede i brividi. Le mani cominciarono ad accarezzare il banco, prima di frugare nel ripiano dove teneva i libri. Le dita scovarono una matita. L’esaminò da vicino: ecco i lievi segni lasciati dai denti di Rosa.  La baciò.  Baciò i libri che trovò  sul  ripiano, tutti ordinatamente ricoperti di cerata bianca che sapeva di pulito.
Alle  cinque  in punto,  coi sensi inebriati dall’amore e Rosa,  Rosa, Rosa, sempre sulle labbra,  scese le scale per immergersi nella serata invernale.  La chiesa di Santa Caterina si trovava giusto accanto alla scuola. Rosa, ti amo!

John Fante, Aspetta primavera, Bandini – Traduzione di Carlo Corsi