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“L’amore al tempo del colera” è una storia di ottimismo e di fede incrollabile nell’Amore, un inno alla vita, il bisogno di credere che quello che aspettiamo da qualche parte ci sia.
Garcìa Màrquez in questo splendido romanzo dà parola all’amore attraverso la bocca di Fiorentino Ariza con questa semplice frase:”Il Cuore ha più stanze di un albergo”; ne esplora la natura in tutte le sue sfaccettature: amore non corrisposto, amore coniugale, amore platonico, amore arrabbiato, amore geloso, amore giovane, amore adulterino, amore a distanza, amore negli anziani.
La storia inizia negli ultimi anni dell’Ottocento a Cartagena, città magica e sensuale e ripercorre cinquant’anni di vita del protagonista. Il ventenne telegrafista, rimasto folgorato dalla visione dell’incantevole Fermina, trova il coraggio d’intrecciare con lei una tenera corrispondenza fatta di bigliettini lasciati dietro alla statua di una fontana galeotta; prudentemente e lentamente l’amore viene corrisposto. La felicità di Florentino è tale da chiedere Fermina in sposa. Ma il padre della ragazza – ricchissimo uomo d’affari – categoricamente contrario al matrimonio tra i due, porta la giovane in un’altra città e la dà in sposa ad un rispettato dottore. Florentino passerà il mezzo secolo a venire tra conquiste femminili che non gli rapiranno mai il cuore e la carriera nella compagnia fluviale dello zio, di cui diverrà infine proprietario: ma non passerà mai giorno senza un pensiero ed un sospiro dedicato alla sua amata. Le condoglianze per la morte del dottor Juvenal Urbino – marito di Fermina – sarà finalmente l’occasione per riaffermare garbatamente alla donna quell’amore coltivato per, appunto, “Cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese”
Un libro accattivante, magico e poetico da leggere tutto d’un fiato.
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Capita che sfiori la vita di qualcuno, ti innamori e decidi che la cosa più importante è toccarlo, viverlo, convivere le malinconie e le inquietudini, arrivare a riconoscersi nello sguardo dell’altro, sentire che non ne puoi più fare a meno… e cosa importa se per avere tutto questo devi aspettare cinquantatre anni sette mesi e undici giorni notti comprese?
Estratto:
L’umidità della Cabina Presidenziale li sommerse in un letargo irreale in cui era più facile amarsi senza fare domande. Vivevano ore inimmaginabili tenendosi per mano sulle poltrone della veranda, si baciavano piano, si godevano l’ubriachezza delle carezze senza l’impiccio dell’esasperazione. La terza notte di torpore lei lo aspettò con una bottiglia di “anisado”, che beveva di nascosto con la combriccola della cugina Hildebranda, e più tardi, già sposata e con figli, chiusa con le amiche del suo mondo prestato. Aveva bisogno di un po’ di stordimento per non pensare alla sua sorte con troppa lucidità, ma Florentino Ariza credette che fosse per farsi coraggio per il passo finale. Animato da quell’illusione si azzardò a sfiorare col polpastrello delle dita il suo collo avvizzito, il seno corazzato da stecche metalliche, i fianchi dalle ossa tarlate, le cosce da vecchia cerva. Lei lo accettò compiaciuta con gli occhi chiusi, ma senza sussulti, fumando e bevendo a piccoli sorsi. Alla fine, quando le carezze scivolarono verso il suo ventre, aveva ormai abbastanza anice nel cuore.
«Se dobbiamo fare delle cazzate, facciamole» disse, «ma che sia come la gente adulta.»
Lo portò in camera da letto e incominciò a spogliarsi senza falsi pudori con le luci accese. Florentino Ariza si sdraiò supino sul letto, cercando di riprendere la propria padronanza, ancora una volta senza sapere che cosa fare con la pelle della tigre che aveva ammazzato. Lei gli disse: «Non guardare». Lui chiese perché senza spostare lo sguardo dal soffitto.
«Perché non ti piacerebbe» disse lei.
Allora lui la guardò, e la vide nuda fino alla vita, così come se l’era immaginata. Aveva le spalle raggrinzite, i seni cadenti e le costole coperte da una pelle pallida e fredda come quella di una rana. Lei si coprì il seno con la camicia che si era appena tolta e spense la luce. Allora lui si tirò su e incominciò a spogliarsi nell’oscurità, gettandole addosso ogni indumento che si toglieva, e lei glieli ributtava indietro morta dal ridere.
Rimasero supini per un lungo momento, lui sempre più stordito via via che lo abbandonava l’ubriachezza, e lei tranquilla, quasi abulica, ma chiedendo a Dio di non farla ridere senza senso, come le accadeva sempre quando andava giù pesante con l’anice. Chiacchierarono per passare il tempo. Parlarono di loro, delle loro vite differenti, del caso inverosimile di essere nudi nella cabina oscura di un battello fermo quando la cosa giusta era pensare che non restasse loro più tempo se non per aspettare la morte. Lei non aveva mai sentito dire che lui avesse una donna, neanche una, in una città in cui si sapeva tutto anche prima che avvenisse. Glielo disse in modo casuale, e lui le rispose immediatamente senza un tremito nella voce:
«E’ che mi sono mantenuto vergine per te.»
Lei non ci avrebbe creduto in ogni modo, anche se fosse stato vero, perché le sue lettere d’amore erano fatte di frasi come quella che non valevano per il loro senso ma per il loro potere di turbamento. Ma le piacque il coraggio con cui lo disse. Florentino Ariza, da parte sua, si chiese di colpo quello che non si era mai azzardato a chiedersi: che tipo di vita nascosta avesse fatto lei ai margini del matrimonio. Niente lo avrebbe sorpreso, perché lui sapeva che le donne sono uguali agli uomini nelle loro avventure segrete: gli stessi stratagemmi, le stesse improvvise ispirazioni, gli stessi tradimenti senza rimorsi. Ma fece bene a non chiederlo. In un’epoca in cui le sue relazioni con la Chiesa erano già abbastanza tese, il confessore le chiese a sproposito se fosse mai stata infedele al marito, e lei si alzò senza rispondere, senza finire, senza congedarsi, e non tornò mai più a confessarsi con quel confessore né con nessun altro. Invece, la prudenza di Florentino Ariza ebbe una ricompensa insperata: lei tese la mano nell’oscurità, gli accarezzò il ventre, i fianchi, il pube quasi glabro. Disse: «Hai una pelle da bambino». Poi fece il passo finale: lo cercò dove non era, lo ricercò senza illusioni, e lo trovò inerme.
«E’ morto» disse lui.
Gli era capitato sempre la prima volta, con tutte, da sempre, e così aveva imparato a convivere con quel fantasma: ogni volta aveva dovuto imparare di nuovo, come se fosse la prima. Prese la mano di lei e se la mise sul petto: Fermina Daza sentì quasi a fior di pelle il vecchio cuore instancabile battere con la forza, la fretta e il disordine di un adolescente. Lui disse: «Troppo amore è tanto dannoso per questo quanto la mancanza d’amore». Ma lo disse senza convinzione: si vergognava, era furioso con se stesso, desiderando un motivo per incolpare lei del suo insuccesso. Lei lo sapeva, e incominciò a provocare il corpo indifeso con carezze scherzose, come una gatta tenera che si delizia nella crudeltà, finché lui non ce la fece più a resistere al martirio e se ne andò nella sua cabina. Lei continuò a pensare a lui fino all’alba, convinta finalmente del suo amore, e più l’anice l’abbandonava a ondate lente più la invadeva l’angoscia che lui si fosse disgustato e non tornasse mai più.
Ma tornò il giorno stesso, all’ora insolita delle undici del mattino, fresco e restaurato, e si spogliò davanti a lei con una certa ostentazione. Lei si compiacque di vederlo in piena luce così come l’aveva immaginato nell’oscurità: un uomo senza età, di pelle scura, lucida e tesa come un ombrello aperto, senza altri peli all’infuori di quelli molto scarsi e lisci delle ascelle e del pube. Aveva la guardia alta, e lei si accorse che non si lasciava vedere l’arma per caso ma che l’esibiva come un trofeo di guerra per farsi coraggio. Non le diede neanche il tempo di togliersi la camicia da notte che si era messa quando era iniziata la brezza dell’alba, e la sua fretta da principiante le provocò un fremito di compassione. Ma non le diede fastidio, perché in casi come quello non le era facile distinguere fra la compassione e l’amore. Alla fine, però, si sentì svuotata.
Era la prima volta che faceva l’amore in più di vent’anni, e lo aveva fatto imbarazzata dalla curiosità di provare come poteva essere alla sua età dopo un’interruzione così prolungata. Ma lui non le aveva dato tempo di sapere se anche il suo corpo lo voleva. Era stato rapido e triste, e lei pensò: «Adesso abbiamo fottuto tutto». Ma si sbagliava: nonostante la delusione di tutti e due, nonostante il pentimento di lui per la sua goffaggine e il rimorso di lei per la pazzia dell’anice, nei giorni seguenti non si separarono un attimo. Uscivano dalla cabina quasi solo per mangiare. Il capitano, che scopriva qualsiasi mistero volesse nascondersi nel suo battello, gli mandava la rosa bianca tutte le mattine, gli aveva fatto fare una serenata di valzer del loro tempo, gli faceva preparare cibi scherzosi con ingredienti incoraggianti. Non riprovarono l’amore fino a molto tempo dopo, quando l’ispirazione arrivò senza che la cercassero. A loro bastava la semplice felicità di stare insieme.
[…]
Bevette tanto “anisado” che dovettero aiutarla a salire le scale, e soffrì di un attacco di risa con lacrime che allarmò tutti. Tuttavia, quando riuscì a dominarlo nel ristagno profumato della cabina, fecero un amore tranquillo e sano, da vecchi offuscati, che si sarebbe impresso nella loro memoria come il miglior ricordo di quel viaggio lunatico. Non si sentivano come innamorati di fresca data, contrariamente a quello che il capitano e Zenaida supponevano, e tantomeno come amanti tardivi. Era come se avessero saltato l’arduo calvario della vita coniugale e fossero andati senza altre circonvoluzioni all’essenza dell’amore. Passavano il tempo in silenzio come due vecchi sposi scottati dalla vita, oltre le trappole della passione, oltre gli scherzi brutali delle illusioni e i miraggi delle disillusioni: oltre l’amore. Perché avevano vissuto insieme quanto bastava per accorgersi che l’amore era l’amore in qualsiasi tempo e in qualsiasi parte, ma tanto più intenso quanto più era vicino alla morte.
[…]
Florentino Ariza lo ascoltò senza battere ciglio. Poi guardò dalle finestre il cerchio completo del quadrante della rosa dei venti, l’orizzonte nitido, il cielo di dicembre senza una sola nuvola, le acque navigabili per sempre, e disse:
«Andiamo a dritta, a dritta, a dritta, ancora verso La Dorada.»
Fermina Daza sussultò, perché riconobbe l’antica voce illuminata dalla grazia dello Spirito Santo, e guardò il capitano: era lui il destino. Ma il capitano non la vide perché era annichilito dal tremendo potere di ispirazione di Florentino Ariza.
«Lo dice sul serio?» gli chiese.
«Fin da quando sono nato» disse Florentino Ariza, «non ho detto una sola cosa che non sia sul serio.»
Il capitano guardò Fermina Daza e vide sulle sue ciglia i primi fulgori di una brina invernale. Poi guardò Florentino Ariza, la sua padronanza invincibile, il suo amore impavido, e lo turbò il sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti.
«E fino a quando crede che possiamo continuare con questo andirivieni del cazzo?» gli domandò.
Florentino Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatré anni sette mesi e undici giorni, notti comprese.
«Per tutta la vita» disse.
Gabriel García Márquez, L’amore ai tempi del colera – Traduzione di Angelo Morino