Riprendiamo dal blog “Vento largo” questa bellissima intervista di Michele Concina a Margherita Fenoglio.
Mio padre mi dà grandi soddisfazioni, ma anche un daffare pazzesco. Dall’anno scorso, quando sono iniziate le celebrazioni per i 70 anni della Resistenza e insieme quelle per il cinquantenario della sua morte, in pratica non faccio altro che occuparmi di lui”. Un mestiere ce l’avrebbe, Margherita Fenoglio: è avvocato, specializzata in diritto di famiglia; ha a che fare tutti i giorni con figli contesi e separazioni difficili. Ma nella sua vita straripa quel padre amatissimo benché mai conosciuto, ucciso da un cancro ai bronchi a 41 anni, quando Margherita ne aveva appena compiuti due. Lo scrittore e partigiano inflessibile con se stesso e con gli altri. Il Beppe Fenoglio secco e impietoso nei suoi capolavori, Il partigiano Johnny, La malora, La paga del sabato, Una questione privata. Eppure così dolce con quella bimba destinata a somigliargli che il giorno prima di morire radunò le ultime forze per scriverle un biglietto: “Ciao, per sempre, Ita mia cara. Ogni mattina della tua vita io ti saluterò, figlia mia adorata…”.
Un padre ingombrante è spesso scomodo.
Per me è prima di tutto un padre di cui andare orgogliosa, ma senza arroganza. Mia madre mi ha insegnato che il talento era suo, che non c’è alcun merito nell’essere la figlia di Fenoglio, che la stima degli altri si guadagna, non si eredita. E so che il suo ricordo lo divido con moltissimi altri, con migliaia di persone che lo amano e lo ammirano. La sua è stata una vita breve, brevissima, che però ha lasciato un segno enorme.
Ancora oggi?
Oggi più che mai, anche grazie a Internet che facilità la comunicazione, l’espressione dei sentimenti. Ogni giorno qui al Centro studi Beppe Fenoglio, e perfino al mio indirizzo privato, arrivano decine di mail. C’è qualcuno – immagino sia un uomo, ma non so neppure quello – che una volta all’anno visita la sua tomba a fumare con lui, per così dire: poggia una sigaretta intera sulla lapide, un’altra ne fuma lui, lascia il mozzicone in bella vista come fosse un fiore, e se ne va.
A proposito di sigarette, non le capita di arrabbiarsi con suo padre per aver fumato così tanto? Ha privato lei della gioia di conoscerlo, noi probabilmente di altri grandi libri.
Non sono arrabbiata con lui, e neppure con il destino. Del resto, non credo che lo abbia ucciso soltanto il tabacco. Due anni a combattere in montagna, in quelle condizioni, lasciano il segno. Le Langhe di Beppe Fenoglio non sono il paesaggio da cartolina che oggi tutti contemplano con occhi sognanti, le colline dove le rose si mescolano ai vigneti. La sua era la Langa alta, inospitale, scoscesa, gelida d’inverno. Da anni qui al Centro studi organizziamo passeggiate in quei luoghi. Andiamo nella bella stagione, con le nostre scarpe buone, cibo e acqua, un maglione nello zaino nel caso a sera rinfrescasse. E quando partecipo, mi viene l’angoscia pensando ai ragazzi che si sono arrampicati su e giù per quei dirupi in pieno inverno, malvestiti, malnutriti, inseguiti dai tedeschi.
Nei suoi romanzi, specie “Il partigiano Johnny”, Beppe Fenoglio ha rigettato la retorica che ha ingessato per decenni l’immagine della Resistenza. Non ha mai esitato a parlare di guerra civile.
C’è stato un tempo in cui per descrivere la Resistenza si usavano dosi di enfasi fortissime, quasi letali. La Resistenza era sempre alta, bionda, con gli occhi azzurri. Quel tempo è passato, e non solo grazie a mio padre. Il libro del 1991 di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza è un punto fermo.
In quelle pagine l’adesione alla lotta partigiana appare esistenziale. Molti salivano in montagna per puro e semplice ribrezzo verso i fascisti.
Mio zio Walter, fratello e compagno d’armi di Beppe Fenoglio, diceva sempre che il fascismo era brutto. Tirannico, guerrafondaio, ampolloso; ma in primo luogo brutto. Per mio padre contarono molto il pensiero e l’esempio di due dei suoi professori al Govone, il liceo di Alba: Leonardo Cocito, comunista ma partigiano in Giustizia e libertà, impiccato dai tedeschi, e Pietro Chiodi, anche lui combattente di Gl, deportato in un lager ma sopravvissuto. Aiutarono quel giovanissimo studente a dar forma a un suo disagio nebuloso, ma cocente; a trasformarlo in un messaggio di libertà. Chiodi racconta, in una lettera, di un anniversario della marcia su Roma. Quel giorno gli studenti, in tutta Italia, erano obbligati a vergare un tema sul regime fascista come erede dell’impero dei Cesari. Fenoglio lasciò il foglio in bianco, non ci fu verso di convincerlo a scrivere una riga.
Suo padre non è stato solo uno scrittore partigiano. Ha raccontato il disagio della pace e del dopoguerra. E il mondo contadino, la povertà come carcere senza sbarre, la fatica senza fine.
Aveva il senso dello sforzo, la percezione della stanchezza. Un paio d’anni prima di morire, in un’intervista, disse: “Scrivo per un’infinità di ragioni, non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti”. Scriveva sempre, tardi, di notte. Viveva circondato di foglietti.
L’ultimo lo ha scritto a Margherita.
Mic. Con., Il Fatto – 20 ottobre 2014
Ciao per sempre, Ita mia cara. Ogni mattina della tua vita io ti saluterò, figlia mia adorata. Cresci buona e bella, vivi con la mamma e per la mamma e talvolta rileggi queste righe del tuo papà che ti ha amato tanto e sa di continuare a essere in te e per te. Io ti seguirò, ti proteggerò sempre, bambina mia adorata e non devi pensare che ti abbia lasciata.
Tuo Papà.
Beppe Fenoglio, Lettera alla figlia