Con stile impeccabile l’autrice narra la storia di una famiglia in cui il ricordo preciso e dettagliato diventa lo strumento per analizzare le vicende esistenziali dei protagonisti sottoposti a un destino che svela i giochi quando sono già fatti.
Solitario come un’autobiografia e corale come una saga familiare, questo vigoroso e insieme delicatissimo romanzo intreccia le storie di una comunità e i destini dei suoi componenti attraverso lo sguardo di una donna, Chiara, che, per scongiurare la follia sprigionata dal dolore, si affida al potere rasserenante della memoria. Riemergono allora, in un accorato fluire di ricordi, la madre Anita, il padre Francesco, la zia Peppina, il cugino Saverio… Sullo sfondo di un Sud ruvido e avvolgente, e insieme dolce e vitale, Chiara ci guida, dal turbinio di fantasmi che agitano una vecchiaia vissuta fuori dal tempo, lungo gli aspri sentieri della sua esistenza. Ed è proprio nel dominio sofferto della lingua, grazie alla trasparenza di una scrittura sospinta innanzi da una sua arcana necessità interna, che questo indimenticabile personaggio femminile affonda il suo senso d’esistere: nel momento di arrendersi alla fatica di vivere, trova la forza e l’orgoglio di raccontare la vita.
Nota di copertina
la ferita aspra che mi occupava il cuore non portò alcun esito, e per lungo tempo soffrii senza sapere trovare la strada per smettere. Se fossi stata meno ingenua; se mi fossi avveduta della pretesa insanabile che si celava dietro al mio dolore; se la ragione mi avesse avvertita che l’accanimento contro mio padre era l’unico modo che avevo per continuare ad amarlo, avrei potuto dirmi sùbito quello che ho impiegato la vita intera ad ammettere: egli era un uomo qualunque. Fece le cose che empiono le cronache ordinarie della vita; molte di esse squallide e volgari, ma portano il segno dei tempi in cui viviamo.
Estratto
Quando mia zia era ancora viva, prendevo l’autobus per rientrare prima, ma farlo non mi piaceva. La ressa delle persone e l’aspetto ordinario dei suoi habitué mi suscitavano una riluttanza profonda: per questo lo prendevo solo per percorrere tratti tanto brevi da giustificare che rimanessi sulla porta, pronta a scendere.
Una sola volta, una sera d’agosto, tentai di sedermi: l’autobus era quasi vuoto e io, già turbata dal disgusto del luogo, mi diressi verso il sedile più vicino all’uscita. Davanti a me, una medusa con i capelli attorcigliati e rigidi come serpenti che le coprivano il viso, si mise ad urlare nella mia direzione: “La regina di Francia ha un trono; la regina d’Inghilterra ha un trono; la regina di Svezia ha un trono!…”. Vergognosa e senza sapere cosa fare, mi guardai la punta delle scarpe e strinsi al corpo le buste della spesa. Quella urlò più forte, come se proprio io fossi la causa del suo furore. Tremando, aspettavo di arrivare alla fermata. Non appena scesi, alzai gli occhi a guardarla: era là, col volto da Gorgone e l’orribile sporco che macula la pelle di certi folli che, per vivere, hanno scelto la strada. Provai un ribrezzo mescolato ad attrazione, e per un attimo smarrii la memoria di quel che facevo e di dove stavo andando.
In uno stato di stordimento feci qualche passo nella direzione del lampione, e mi fermai a riflettere. Un pensiero si fece strada nel disagio della mente: se solo avessi smesso di essere vigliacca, sarei stata come quella donna. Se avessi spinto me stessa oltre la soglia dell’orrore del vuoto, se avessi guardato in faccia al mito che pietrifica a un unico svelamento, niente più mi avrebbe trattenuta alle regole della vita comune! Allora, anch’io avrei potuto urlare contro uno sconosciuto l’anatema della mia esistenza. Come certe creature irrisolte, che denunciano fin dall’aspetto il proprio ibrido destino, non ho mai osato smemorarmi di me stessa totalmente: così, dunque, non mi sono liberata del passato fino a divenire una folle. Prigioniera della mia vita, sono rimasta una creatura di confine.
[…]
Quando era giunto ai confini delle sue terre, aveva riconosciuto il profilo delle montagne come si riconosce il volto della persona amata. Da ragazzo, in quel punto preciso, sapeva che mancavano ancora sette kilometri alla scuola, e si aggiustava il respiro per prendere un’andatura più costante. Come allora, aveva respirato l’aria sottile di quell’altura dove si pone il confine che – su sentieri diversi – separa la Puglia dalla Basilicata e questa dall’Irpinia, e aveva guardato il paese schiacciato come un nero rospo sulla collina. Poi si era seduto sul ciglio della strada e aveva pianto.
E a cambiarla era stato lui…
Con un sospiro, guardo la pallida luce del giorno che se ne va con la sua ombra lunga sulle mie piazze: nessuno più mi chiamerà, nessuno mi verrà a cercare.
Forse riceverò ancora qualche lettera da Titina e rivedrò la mia bella Rosina; forse incontrerò mio padre e ci arrenderemo a un sorriso.
Forse, mi dico, forse.”