In questo libro non una storia ma due, incastrate una nell’altra. Ciò che emerge e che coinvolge chi si approssima alla lettura è il gioco, e spesso il bisticcio, tra due generazioni, due mondi mentali, due lingue e un numero spropositato di lettere dell’alfabeto.
Al poeta ebreo, che non la smette di raccontarsi, si contrappone un giovinetto inesperto del mondo, ma abbastanza saputo per trovar sempre il modo di dire la sua. Studia ebraico un po’ per caso, poi, soprattutto per far la corte a una ragazza (Sasha Bimko, figlia del macellaio di Kishinev, per l’appunto), si immerge nello yiddish e così finisce al cuore della vicenda in veste di traduttore. E’ lui a sobbarcarsi il compito, quasi impossibile, di traghettare il manoscritto del poeta dall’aldilà dei ricordi verso la sponda del presente. E mentre volge dallo yiddish le peripezie di Malpesh, dalla Russia zarista dei pogrom alla Baltimora di un sogno americano finito in frantumi, Itsik Malpesh impacciato si trasforma a poco a poco in archeologo dell’anima.
«Iniziai a capire che su di lei avevo dei diritti solo lì dove era sempre stata: sulle mie pagine, negli scritti dei miei sogni. Ogni giorno la baciavo appassionatamente col pennino della mia stilografica. […] Se il mio desiderio di lei fosse stato tutto ciò che avrei conosciuto, lo avrei alimentato come se fosse stato il futuro che lei e io non avremmo mai avuto».
Consigliatissimo.
Fa che la tua patria siano le parole, Itsik. Falle diventare il tuo amore. Ti giuro che, se lo farai, non sarai mai senza una casa e non sarai mai disperato. Ti alzerai ogni mattina sapendo che il mondo è tuo, non importa in quale angolo ti sveglierai.
Estratto
La formazione di un poeta non è mai una storia semplice. Non si frequenta un’accademia di poesia, né ci si inginocchia davanti davanti a un maestro per lavargli i piedi. E’ raro che diventi l’apprendista del cantastorie del villaggio. Invece è un tipo di insegnamento che ti cade addosso senza motivo, come i mattoni dal cielo. Solo più tardi, guardando indietro, il poeta può ricordare che era stato lui stesso a lanciare quei mattoni in aria. Da dove? E quando? E perché? Forse scrive per dare risposte a queste domande o forse spera che le parole giuste lo proteggeranno come un ombrello robusto.
[…]
Ogni mattina, all’inizio delle lezioni di Der Lerer, passavo un soldo a Chaim. In cambio lui divideva con me i segreti dei suoi libri e mi istruiva sul loro significato. Che libri! Non erano testi sacri, come mio padre aveva sospettato. Gli interessi di Chaim andavano ben oltre a quello che lui o Der Lerer avrebbero potuto immaginare.
Non dimenticherò mai la meraviglia e il timore che mi suscito la prima sbirciata che diedi dietro ai grossi volumi che tenevano Chaim inchiodato al banco. Dopo che gli ebbi messo davanti il mio soldo, lui si guardò attorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno nelle vicinanze, poi mi prese per il bavaro e mi trascinò al di là della sua muraglia di libri. Lì poggiato sulle pagine aperte della sua copia del Talmud, c’era un libro diverso da tutti qulli che avevo mai visto. Guardai un attimo e in un primo momento non capii cosa stavo fissando, perché il testo nascosto non era in yiddisch o in ebraico, e neppure in aramaico, né in nessuna delle altre lingue che leggevano alla yeshivah, ma…
«Russo!», urlai. «Tu leggi in russo!»
[…]
«La vera conoscenza non la trovi nelle farneticazioni dei rabbini e neanche in quelle dei mistici. Lo capirai quando avrai letto anche una sola pagina di Puskin o Turgenev. E mi ringrazierai, perché sono così generoso da offrirti un nuovo mondo per un solo soldo al giorno».
Il suo potere di persuasione era notevole. Seduto accanto a Chaim, respirando la stessa aria di quel prodigio simile e delle sue illecite letture, osservai il libro aperto e i suoi caratteri cirillici mi sembrarono esotici e allettanti come una mappa del tesoro. Chiusi gli occhi e mi chinai sulle pagine inalando il loro profumo straniero, pronto a essere trasportato ovunque da quell’aroma di poltiglia di legno e inchiostro. Poi, improvvisamente, tornai in me.
[…]
«Tu hai dentro di te tutta la conoscenza necessaria per vivere. E’ solo questione di tirarla fuori. I libri che ti darò saranno la chiave per la saggezza che è nascosta nella tua testa…»
[….]
Rientrato a casa, quella sera mi misi a leggere di nuovo le pagine che mia aveva dato Chaim e mi rammaricai ancora perché lui non mi avrebbe più aiutato a capirne il significato. Scoprii tuttavia con mia sorpresa che non avevo più bisogno di una guida. Quando tornai a leggere di Raskol’nikov e del Delitto e castigo, mi accorsi che non leggevo più nel modo esitante e zoppicante in cui leggevo sotto la guida di Chaim. Ora leggere quelle pagine sbrindellate era più simile al respirare che al fare lo sforzo. Era come essere, perché mentre leggevo la storia, io ero la storia. I pensieri e i timori di Raskol’nikov erano i miei, come lo erano i suoi delitti. Com’è possibile vivere in modo così completo la vita di un altro?, mi domandai. Come potevo essere un ragazzo fatto di carne e di ossa e, allo stesso tempo, un uomo fatto di parole?
[…]
Nascosto in camera, aprii il mio barattolo pieno di fogli più per dimostrare a me stesso che potevo farlo che per un vero desiderio di leggere.
Sparsi le pagine sciolte sul pavimento, disponendole attorno a me come se fossero i raggi di una ruota di cui io ero il centro… riordinai le pagine del settimo capitolo di Delitto e castigo e mi misi a rileggerle. Era uno dei mie capitoli preferiti, perché non conteneva tutte quelle riflessioni filosofiche tanto noiose per un lettore giovane come me, ma molti di quei momenti drammatici che per me ne giustificavano invece la lettura. Era il capitolo in cui Raskol’nikov decide di sbarazzarsi dell’usuraia, spinto da una forza che neanche lui sa spiegare.
Normalmente la descrizione delle strade e dei suoni della Pietroburgo di Dostoevskij erano sufficienti a farmi dimenti care i miei affanni. Ma quella sera, mentre sfogliavo le pagine, mi vennero in mente le domande che forse altri si sarebbero posti prima. Mentre seguivo il cammino di Raskol’nikov su per le scale della casa dell’usuraia, con l’ascia in mano, pensai al biglietto di Bemkin che avevo distrutto e, improvvisamente, mi sentii uno sciocco più che un eroe. Quando l’usuraia aprì la porta e trovò
Raskol’nikov ad aspettarla, mi chiesi cosa avessi ottenuto distruggendo e disperdendo il biglietto. Non avrebbe forse potuto scriverne un altro? Come avrebbe potuto un ragazzo piccolo come me impedire qualcosa ad un uomo grande come lui? Ma quando infine Raskol’nikov entrò nella stanza di quell’orribile donna, capii cosa dovevo fare.
Al tramonto del mio primo giorno di esilio avevo già scoperto che dare un nome agli uccelli mentre volano era più straordinario anche dell’abbatterli a fucilate, perché al poeta appartiene il volo, non la loro caduta, non una carcassa flaccida, ma il vento che solleva le loro ali. Con questi pensieri, camminai per miglia componendo poesie, mentre i miei passi marcavano il tempo e l’aria davanti a me era l’unica pagina.
Da: Ballata per la la figlia del macellaio – Traduzione di Giuliano Bottali e Simonetta Levantini