Una donna, non è un diario, non è un romanzo, né un’autobiografia, potrebbe invece definirsi un “esercizio di autoanalisi” in forma letteraria: probabilmente una severa, a tratti spietata, riflessione sul proprio vissuto e su come avrebbe potuto o dovuto essere. Protagonista del romanzo è il “femminismo“, a decretarne il successo però non fu solo questa caratteristica, ma soprattutto l’insanabile dicotomia tra la maternità vissuta in mezzo a carne e sangue («…quelle membra che erano uscite da me, io le pensava istintivamente animate dall’identico mio soffio…»), gridata, sospirata con sdolcinato ardore e la decisione finale di abbandonare all’educazione del marito ripudiato la tanto amata creatura; e l’ideale che dell’amore si va costruendo la protagonista.
L’opera fu composta tra il 1901 e il 1904 e si compone di ventidue capitoli nei quali la scrittrice rievoca in prima persona le vicende della propria vita, a partire dalla fanciullezza fino alla maturità.
Un romanzo che ogni Donna dovrebbe leggere. Consigliato.
Ubbidisci al comando della tua coscienza, rispetta sopra tutto la tua dignità, madre: sii forte, resisti lontana, nella vita, lavorando, lottando. Conservati da lontano a noi; sapremo valutare il tuo strazio d’oggi: risparmiaci lo spettacolo della tua lenta disfatta qui, di questa agonia che senti inevitabile!
Estratti:
La sua non era più gelosia: era un livore oscuro, era umiliazione, era mania d’imporsi, come per sfida, vedendo affermarsi la possibilità della mia indipendenza. Ed io non osavo arrestarmi un attimo a considerare l’ironia della mia condizione!… Perché avevo quasi terrore che altri lo intuisse? Mi pareva che una voce dal profondo mi tacciasse d’ipocrita, oltre che di vile…L’opera sparsa e faticosa che andavo compiendo non mi confortava molto delle intime disfatte. Cominciavo a spiegarmi la mancanza in Italia di un nucleo che disciplinasse i tentativi e le affermazioni femministe. La solidarietà femminile laica non esisteva ancora. Invece il cattolicismo, che aveva sempre imposto alla donna il sacrificio, consentiva ora ad una certa azione muliebre, ma sotto la propria sorveglianza. Contro questo nuovo pericolo nessuno s’agguerriva. Anzi, come ben mi indicava la vecchia amica, i liberi pensatori di Montecitorio mandavan le loro figlie in istituti retti da monache, allo stesso modo che quelli del paese laggiù mandavan le mogli al confessionale.
“Femminismo!” esclamava ella. “Organizzazione di operaie, legislazione del lavoro, emancipazione legale, divorzio, voto amministrativo e politico… Tutto questo, sì, è un compito immenso, eppure non è che la superficie: bisogna riformare la coscienza dell’uomo, creare quella della donna!”E la buona vecchia, la cui energia contrastava vittoriosamente colla gravezza penosa della persona, mi portava con lei a vedere le sue opere nuove o rinnovate. “Agire! questa è la vera propaganda!”
[…]
Tra le due fasi della vita femminile, tra la vergine e la madre, sta un essere mostruoso, contro natura, creato da un bestiale egoismo maschile: e si vendica, inconsapevolmente. Qui è la crisi della lotta di sesso. La vergine ignara e sognante trova nello sposo un cuore triste e dei sensi inariditi; fatta donna ed esperta comprende come il suo amore sia stato prevenuto da una brutale iniziazione. Fra i due torna spesso l’intrusa, e il solo ricordo avvilisce ogni loro bacio.
Mio figlio! Chi gli avrebbe fatto la sacra rivelazione? Gli avrei mai potuto dire quel che egli doveva essere, un giorno, per la sua donna?
V’era nel mondo che si agitava intorno a noi tanto scetticismo, tanta viltà!
[…]
..Così era stata mia madre coi suoi bambini… Un giorno trassi da una cassetta alcune vecchie carte di lei, consegnatemi dalla mia sorellina prima della sua partenza dal paese. Non avevo mai avuto il coraggio di scorrerle. Eran lettere di parenti, note di spese, appunti disparati, abbozzi di ciò ch’ella scriveva ai genitori, alla sorella, al marito; qualche poesia sua, anche, degli anni giovanili, sentimentale, romantica, e tuttavia vibrante d’una tragica sincerità. Lo spirito materno mi si mostrava in quei fogli sparsi, quale l’avevo ricostituito penosamente colla sola intuizione nei giorni della sua rovina.
E una lettera mi fermò il respiro. Datava da Milano: era scritta a matita, in modo quasi illeggibile, di notte. La mamma annunziava a suo padre il suo arrivo per il dì dopo; diceva di aver già pronto il baule colle poche cose sue, di essere già stata nella camera dei figliuoli a baciarli per l’ultima volta…
“Debbo partire… qui impazzisco… lui non mi ama più… Ed io soffro tanto che non so più voler bene ai bambini… debbo andarmene, andarmene… Poveri figli miei, forse è meglio per loro!…”
La lettera non era finita: certo non era stata rifatta né spedita. La sventurata non aveva avuto il coraggio di compiere il proposito impostosi in un’ora di lucida disperazione. Aveva forse pensato che suo padre non avrebbe voluto o potuto accoglierla; che la miseria l’attendeva; che il suo cuore si sarebbe spezzato lungi dalle sue creature e da colui che aveva avuta tutta la sua gioventù. Ella l’aveva amato! L’amava ancora? Per noi sopra tutto era rimasta: per dovere, per il timore di sentirsi dire un giorno: “Ci hai abbandonati!…”.
Non avevo mai sospettato che mia madre si fosse trovata un momento in una simile situazione. La mia intelligenza precoce non aveva potuto, a Milano, penetrar nulla. Avessi avuto qualche anno di più, mentre ella era in possesso di tutta la sua ragione, e ancora in lei la vita reclamava i suoi diritti contro la fatale seduzione del sacrificio! Avessi potuto sorprenderla in quella notte, sentire, dalla sua bocca, la domanda: “Che devo fare, figlia mia?” e rispondere anche a nome dei fratelli: ‘Va’, mamma, va’!”.
Sì, questo le avrei risposto; le avrei detto: “Ubbidisci al comando della tua coscienza, rispetta sopra tutto la tua dignità, madre: sii forte, resisti lontana, nella vita, lavorando, lottando. Conservati da lontano a noi; sapremo valutare il tuo strazio d’oggi: risparmiaci lo spettacolo della tua lenta disfatta qui, di questa agonia che senti inevitabile!”.
Ahimè! Eravamo noi, suoi figli, noi inconsci che l’avevamo lasciata impazzire. S’ella fosse andata via, se nostro padre non ci avesse permesso di raggiungerla, ebbene, noi l’avremmo nondimeno saputa viva, e dopo dieci, vent’anni, ancora avremmo potuto ricevere da lei i benefizi del suo spirito liberato e temprato…
Perché nella maternità adoriamo il sacrificio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna? Di madre in figlia, da secoli, si tramanda il servaggio.
È una mostruosa catena. Tutte abbiamo, a un certo punto della vita, la coscienza di quel che fece pel nostro bene chi ci generò; e con la coscienza il rimorso di non aver compensato adeguatamente l’olocausto della persona diletta. Allora riversiamo sui nostri figli quanto non demmo alle madri, rinnegando noi stesse e offrendo un nuovo esempio di mortificazione, di annientamento. Se una buona volta la fatale catena si spezzasse, e una madre non sopprimesse in sé la donna, e un figlio apprendesse dalla vita di lei un esempio di dignità? Allora si incomincerebbe a comprendere che il dovere dei genitori s’inizia ben prima della nascita dei figli, e che la loro responsabilità va sentita innanzi, appunto allora che più la vita egoistica urge imperiosa, seduttrice. Quando nella coppia umana fosse la umile certezza di possedere tutti gli elementi necessari alla creazione d’un nuovo essere integro, forte, degno di vivere, da quel momento, se un debitore v’ha da essere, non sarebbe questi il figlio?
Per quello che siamo, per la volontà di tramandare più nobile e più bella in essi la vita, devono esserci grati i figli, non perché, dopo averli ciecamente suscitati dal nulla, rinunziamo all’essere noi stessi…
Quella notte non dormii. Il confuso problema di coscienza intravisto la prima volta a Roma, mi si imponeva ora con una lucidità implacabile. E per giorni, per settimane maturai nello spirito ciò che in quella notte avevo veduto.
Avevo formulata la mia legge. Essa avrebbe agito, mi avrebbe compenetrata, sarebbe diventata istinto, atto, e un giorno senza sforzo l’avrei seguita, come la rondine che segue le correnti della primavera.
Esteriormente ero più calma, in certi momenti l’idea si impossessava tanto di me, che io non la consideravo più se non in astratto, senza applicarla al mio caso, tanto era limpida e naturale nella sua verità, tanto era lontana dalla pratica mia e di tutti.
[…] Partire, partire per sempre. Non ricadere mai più nella menzogna. Per mio figlio più ancora che per me! Soffrire tutto, la sua lontananza, il suo oblio, morire, ma non provar mai il disgusto di me stessa, non mentire al fanciullo, crescendolo, io, nel rispetto del mio disonore!
Da: Una donna di Sibilla Aleramo