(Qualche parola sull’anima)
L’anima la si ha ogni tanto. Nessuno la ha di continuo e per sempre.
Giorno dopo giorno, anno dopo anno possono passare senza di lei.
A volte nidifica un po’ più a lungo sole in estasi e paure dell’infanzia. A volte solo nello stupore dell’essere vecchi.
Di rado ci da una mano in occupazioni faticose, come spostare mobili, portare valige o percorrere le strade con scarpe strette.
Quando si compilano moduli e si trita la carne di regola ha il suo giorno libero.
Su mille nostre conversazioni partecipa a una, e anche questo non necessariamente, poiché preferisce il silenzio.
Quando il corpo comincia a dolerci e dolerci, smonta di turno alla chetichella.
È schifiltosa: non le piace vederci nella folla, il nostro lottare per un vantaggio qualunque e lo strepito degli affari la disgustano.
Gioia e tristezza non sono per lei due sentimenti diversi. E’ presente accanto a noi solo quando essi sono uniti.
Possiamo contare su di lei quando non siamo sicuri di niente e curiosi di tutto.
Tra gli oggetti materiali le piacciono gli orologi a pendolo e gli specchi, che lavorano con zelo anche quando nessuno guarda.
Non dice da dove viene e quando sparirà di nuovo, ma aspetta chiaramente simili domande.
Si direbbe che così come lei a noi, anche noi siamo necessari a lei per qualcosa.
(La fine e l’inizio)
Dopo ogni guerra c’e’ chi deve ripulire. In fondo un po’ d’ordine da solo non si fa.
C’e’ chi deve spingere le macerie ai bordi delle strade per far passare i carri pieni di cadaveri.
C’e’ chi deve sprofondare nella melma e nella cenere, tra le molle dei divani letto, le schegge di vetro e gli stracci insanguinati.
C’e’ chi deve trascinare una trave per puntellare il muro, c’e’ chi deve mettere i vetri alla finestra e montare la porta sui cardini.
Non e’ fotogenico e ci vogliono anni. Tutte le telecamere sono già partite per un’altra guerra.
Bisogna ricostruire i ponti e anche le stazioni. Le maniche saranno a brandelli a forza di rimboccarle.
C’e’ chi con la scopa in mano ricorda ancora com’era. C’e’ chi ascolta annuendo con la testa non mozzata. Ma presto gli gireranno intorno altri che ne saranno annoiati.
C’e’ chi talvolta dissotterrerà da sotto un cespuglio argomenti corrosi dalla ruggine e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti.
Chi sapeva di che si trattava, deve far posto a quelli che ne sanno poco. E meno di poco. E infine assolutamente nulla.
Sull’erba che ha ricoperto le cause e gli effetti, c’e’ chi deve starsene disteso con la spiga tra i denti, perso a fissare le nuvole.
(Accanto a un bicchiere di vino)
Con uno sguardo mi ha reso più bella, e io questa bellezza l’ho fatta mia. Felice, ho inghiottito una stella.
Ho lasciato che mi immaginasse a somiglianza del mio riflesso nei suoi occhi. Io ballo, ballo nel battito di ali improvvise.
Il tavolo è tavolo, il vino è vino nel bicchiere che è un bicchiere e sta lì dritto sul tavolo. Io invece sono immaginaria, incredibilmente immaginaria, immaginaria fino al midollo.
Gli parlo di tutto ciò che vuole: delle formiche morenti d’amore sotto la costellazione del soffione. Gli giuro che una rosa bianca, se viene spruzzata di vino, canta.
Mi metto a ridere, inclino il capo con prudenza, come per controllare un’invenzione. E ballo, ballo nella pelle stupita, nell’abbraccio che mi crea».
(Sulla morte, senza esagerare)
Non s’intende di scherzi, stelle, ponti, tessitura, miniere, lavoro dei campi, costruzione di navi e cottura di dolci.
Quando conversiamo del domani intromette la sua ultima parola a sproposito.
Non sa fare neppure ciò che attiene al suo mestiere: né scavare una fossa, né mettere insieme una bara, né rassettare il disordine che lascia.
Occupata a uccidere, lo fa in modo maldestro, senza metodo né abilità. Come se con ognuno di noi stesse imparando.
Vada per i trionfi, ma quante disfatte, colpi a vuoto e tentativi ripetuti da capo!
A volte le manca la forza di far cadere una mosca in volo. Più di un bruco la batte in velocità.
Tutti quei bulbi, baccelli, antenne, pinne, trachee, piumaggi nuziali e pelame invernale testimoniano i ritardi del suo svogliato lavoro.
La cattiva volontà non basta e perfino il nostro aiuto con guerre e rivoluzioni è, almeno fin ora, insufficiente.
I cuori battono nelle uova. Crescono gli scheletri dei neonati. Dai semi spuntano le prime due foglioline, e spesso anche grandi alberi all’orizzonte.
Chi ne afferma l’onnipotenza è lui stesso la prova vivente che essa onnipotente non è.
Non c’è vita che almeno per un attimo non sia immortale.
La morte è sempre in ritardo di quell’attimo.
Invano scuote la maniglia d’una porta invisibile. A nessuno può sottrarre il tempo raggiunto.
(Lode della cattiva considerazione di sé)
La poiana non ha nulla da rimproverarsi. Gli scrupoli sono estranei alla pantera nera. I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni.
Il serpente a sonagli si accetta senza riserve.
Uno sciacallo autocritico non esiste. La locusta, l’alligatore, la trichina e il tafano vivono come vivono e ne sono contenti.
Il cuore dell’orca pesa cento chili, ma sotto un altro aspetto è leggero.
Non c’è nulla di più animale della coscienza pulita, sul terzo pianeta del sistema solare.
(Agli amici)
Esperti degli spazi dalla terra alle stelle ci perdiamo nello spazio dalla terra alla testa
Conosciamo noi stessi solo fin dove siamo stati messi alla prova.
Qualunque cosa io faccia, si muterà per sempre in ciò che ho fatto.
Per motivi non chiari, in circostanze ignote l’ Essere Ideale smise di bastarsi.
(Scrivere un curriculum)
Cos’è necessario? È necessario scrivere una domanda, e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si è vissuto il curriculum dovrebbe essere breve.
È d’obbligo concisione e selezione dei fatti. Cambiare paesaggi in indirizzi e ricordi incerti in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale, e dei bambini solo quelli nati.
Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu. I viaggi solo se all’estero. L’appartenenza a un che, ma senza perché. Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli, cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore e il titolo che il contenuto. Meglio il numero di scarpa, che non dove va colui per cui ti scambiano. Aggiungi una foto con l’orecchio scoperto. È la sua forma che conta, non ciò che sente. Cosa si sente? Il fragore delle macchine che tritano la carta.
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(La gioia di scrivere)
Dove corre questa cerva scritta in un bosco scritto? Ad abbeverarsi a un’acqua scritta che riflette il suo musetto come carta carbone? Perché alza la testa, sente forse qualcosa? Sostenuta da quattro zampette prese in prestito dalla verità, da sotto le mie dita rizza le orecchie. Silenzio – anche questa parola fruscia sulla carta e scosta i rami causati dalla parola “bosco”.
Sopra il foglio bianco s’acquattano, pronte a balzare, lettere che possono mettersi male, un assedio di frasi che non lasceranno scampo.
In una goccia d’inchiostro c’è una buona scorta di cacciatori con l’occhio nel mirino, pronti a correr giù per la rapida penna, a circondare la cerva, a puntare.
Dimenticano che la vita non è qui. Altre leggi, nero su bianco, vigono qui. Un batter d’occhio durerà finché lo dico io, si lascerà dividere in piccole eternità piene di pallottole fermate in volo. Non una cosa avverrà se non voglio. Senza il mio assenso non cadrà una foglia, né uno stelo si piegherà sotto il punto del piccolo zoccolo.
C’è dunque un mondo di cui reggo le sorti indipendenti? Un tempo che lego con catene di segni? Un esistere che a mio commando è incessante?
La gioia di scrivere. Il potere di perpetuare. La vendetta di una mano mortale.
(La vita difficile con la memoria)
Sono un cattivo pubblico per la mia memoria. Vuole che ascolti di continuo la sua voce, ma io mi agito, tossicchio, ascolto e non ascolto, esco, torno ed esco di nuovo.
Vuole tutta la mia attenzione e il tempo. Quando dormo, la cosa le riesce facilmente. Di giorno ci sono alti e bassi, e le dispiace.
Mi propone con zelo vecchie lettere, foto, tocca fatti più e meno importanti, mi rende paesaggi sfuggiti alla mia vista, li popola con i miei morti.
Nei suoi racconti sono sempre più giovane. E’ carino, ma a che pro questo ritornello. Ogni specchio ha per me notizie differenti.
Si arrabbia quando scrollo le spalle. Allora si vendica e sbandiera tutti i miei errori, pesanti, e poi dimenticati facilmente. Mi fissa negli occhi, aspetta una reazione. Mi consola alla fine, poteva andar peggio.
Vuole che viva solo per lei e con lei. Meglio se in una stanza buia, chiusa, ma qui nei miei piani c’è sempre il sole presente, le nuvole di oggi, le vie giorno per giorno.
A volte ne ho abbastanza della sua compagnia. Propongo di separarci. Da oggi e per sempre. Allora compassionevolmente sorride, sa che anche per me sarebbe una condanna.
(Ringraziamento)
Devo molto a quelli che non amo.
Il sollievo con cui accetto che siano più vicini a un altro.
La gioia di non essere io il lupo dei loro agnelli.
Mi sento in pace con loro e in libertà con loro, e questo l’amore non può darlo, né riesce a toglierlo.
Non li aspetto dalla porta alla finestra. Paziente quasi come una meridiana, capisco ciò che l’amore non capisce, perdono ciò che l’amore non perdonerebbe mai.
Da un incontro a una lettera passa non un’eternità, ma solo qualche giorno o settimana.
I viaggi con loro vanno sempre bene, i concerti sono ascoltati fino in fondo, le cattedrali visitate, i paesaggi nitidi.
E quando ci separano sette monti e fiumi, sono monti e fiumi che trovi su ogni atlante.
È merito loro se vivo in tre dimensioni, in uno spazio non lirico e non retorico, con un orizzonte vero, perché mobile.
Loro stessi non sanno quanto portano nelle mani vuote.
«Non devo loro nulla» – direbbe l’amore su questa questione aperta.
(Prospettiva)
Si sono incrociati come estranei senza un gesto o una parola lei diretta al negozio, lui alla sua auto.
Forse smarriti o distratti o immemori di essersi, per un breve attimo amati per sempre.
D’altronde nessuna garanzia che fossero loro. Sì, forse, da lontano ma da vicino niente affatto.
Li ho visti dalla finestra e chi guarda dall’alto sbaglia più facilmente.
Lei è sparita dietro la porta a vetri lui si è messo al volante ed è partito in fretta. Cioè, come se nulla fosse accaduto, anche se è accaduto.
E io, solo per un istante certa di quel che ho visto, cerco di persuadere voi, lettori con brevi versi occasionali quanto triste è stato.
(Ogni caso)
Poteva accadere. Doveva accadere. È accaduto prima. Dopo. Più vicino. Più lontano. È accaduto non a te.
Ti sei salvato perché eri il primo. Ti sei salvato perché eri l’ultimo. Perché da solo. Perché la gente. Perché a sinistra. Perché a destra. Perché la pioggia. Perché un’ombra. Perché splendeva il sole.
Per fortuna là c’era un bosco. Per fortuna non c’erano alberi. Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno, un telaio, una curva, un millimetro, un secondo. Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.
In seguito a, poiché, eppure, malgrado. Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba, a un passo, a un pelo da una coincidenza.
Dunque ci sei? Dritto dall’attimo ancora socchiuso? La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì? Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo. Ascolta come mi batte forte il tuo cuore.
(Utopia)
Isola dove tutto si chiarisce. Qui ci si può fondare su prove. L’unica strada è quella d’accesso. Gli arbusti si piegano sotto le risposte.
Qui cresce l’albero della Giusta Ipotesi con rami da sempre districati.
Di abbagliante linearità è l’albero del Senno presso la fonte detta Ah Dunque È Così.
Più ti addentri nel bosco, più si allarga la Valle dell’Evidenza.
Se sorge un dubbio, il vento lo disperde.
L’Eco prende la parola senza che la si desti e chiarisce volenterosa i misteri dei mondi.
A destra una grotta in cui giace il Senso.
A sinistra il lago della Profonda Convinzione. Dal fondo si stacca la Verità e viene lieve a galla.
Domina sulla valle la Certezza Incrollabile. Dalla sua cima si spazia sull’Essenza delle Cose.
Malgrado le sue attrattive l’isola è deserta, e le tenui orme visibili sulle rive sono tutte dirette verso il mare. Come se da qui si andasse solo via, immergendosi irrevocabilmente nell’abisso. Nella vita inconcepibile.
(La vita breve dei nostri antenati)
Non arrivavano in molti fino a trent’anni. La vecchiaia era un privilegio di alberi e pietre. L’infanzia durava quanto quella dei cuccioli di lupo. Bisognava sbrigarsi, fare in tempo a vivere Prima che tramontasse il sole, prima che cadesse la neve.
Le genitrici tredicenni, i cercatori quattrenni di nidi tra i giunchi, i capicaccia ventenni – un attimo prima non c’erano, già non ci sono più. I capi dell’infinito si univano in fretta. Le fattucchiere biascicavano esorcismi Con ancora tutti i denti della giovinezza. Il figlio si faceva uomo sotto gli occhi del padre. Il nipote nasceva sotto l’occhiata del nonno.
E del resto essi non contavano gli anni. Contavano reti, pentole, capanni, asce. Il tempo, così prodigo con una qualunque stella del cielo, tendeva loro una mano quasi vuota e la ritraeva in fretta, come pentito. Ancora un passo, ancora due Lungo il fiume scintillante Che dall’oscurità nasce e nell’oscurità scompare.
Non c’era un attimo da perdere, domande da rinviare e illuminazioni tardive. La saggezza non poteva aspettare i capelli bianchi. Doveva vedere con chiarezza, prima che fosse chiaro, e udire ogni voce, prima che risonasse.
Il bene e il male – Ne sapevano poco, ma tutto: quando il male trionfa, il bene si cela; quando il bene si mostra, il male si acquatta. Nessuno dei due si lascia vincere o allontanare a una distanza definitiva. Ecco il perché di una gioia sempre tinta dal terrore, di una disperazione mai disgiunta dalla speranza. La vita, per quanto lunga, sarà sempre breve. Troppo breve per aggiungere qualcosa.
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