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“Point Lenana” – Wu ming1 – Roberto Santachiara

Wu Ming 1 - Point Lenana - Roberto Santachiara
Adalberto Ricci

alla fine lo trovi, per caso ma lo trovi, e non sai se essere soddisfatto o incazzarti. Per anni hai pensato di scrivere qualcosa che mettesse insieme il tuo interesse per il racconto e la storia del 900, senza riuscirci e trovando le scuse più meschine persino con te stesso, poi ti incuriosisce una recensione che trovi in rete, acquisti il romanzo dal tuo libraio di fiducia ed inizi a leggerlo con tutta calma. Il racconto è, effettivamente, originale, una storia vera che riguarda tre POW, prigioniere civili di guerra, in un campo inglese, in Kenya, nel cuore dell’Africa. Il personaggio centrale è un triestino, Felice Benuzzi, con l’amore per le scalate e le montagne, che poi ricorderà in un libro questa avventura. Siamo nel 1943, nel pieno del secondo conflitto mondiale che già si sta mettendo malissimo per gli italiani, soprattutto sul fronte africano, dove l’AOI si sta sgretolando sotto l’avanzata degli inglesi. L’idea di Felice appare assurda: evadere dal campo “momentaneamente”, scalare il monte Kenya, che sovrasta il campo, e che ha affascinato da subito l’alpinista triestino, lasciando una bandiera italiana e poi tornare al campo, fa parte di un modo di pensare tipico di chi ama la montagna e ce lo spiegano gli autori. E a questo punto l’idea geniale dei due… Commentando la vicenda si dipana lentamente, ma attentamente un commento agli avvenimenti che hanno fatto la storia del nostro paese dall’inizio del 900 fino al 2010 quando i due curatori del libro, dopo aver seguito le orme del Benuzzi sul monte Kenya, chiudono il loro affascinante racconto che ci mostra praticamente tutti i protagonisti di un lungo e spesso tragico periodo che non riguarda certo solo l’Italia.
Ogni pagina del racconto ti offre elementi di riflessione e di conoscenza, straordinaria la costruzione della Trieste asburgica prima e “irredenta” poi e poi il dipanarsi della vicenda del dopoguerra, del fascismo, della seconda guerra mondiale e del dopo, tutt’altro che rassicurante fino ad ora, attaccando duramente la retorica e le ambiguità che hanno fatto seguito alla caduta del muro.
Concludendo: un libro da leggere con molta attenzione e con la rabbia per non averlo scritto…

Quando Karen era arrivata in Kenya, nel mondo dal quale proveniva i valori aristocratici erano in crisi da un pezzo, ma in Africa si poteva ancora essere baronesse, e non solo di nome, ma di fatto. Il “mal d’Africa” di Blixen era nostalgia di un’Arcadia dove si era superiori al proprio prossimo senza inceppi nè sensi di colpa, permettendosi anche il lusso di essere “buoni”con gli inferiori. Era nostalgia per lo status di parasite in paradise.

Da tempo gli scrittori ed intellettuali keniani avevano iniziato a decostruire l’immaginario di Blixen. Ngugi wa Thiong’o aveva definito “La mia Africa” “uno dei più pericolosi libri sull’Africa mai scritti”, proprio perchè era un bel libro, pieno di immagini e di sogni.Proprio perchè Blixen era stata una brava scrittrice. Ngugi era andato a dirlo a Copenaghen, nel tempio della santa, in una conferenza che aveva fatto scalpore. E Dominic Odipo aveva scritto: “I danni che Karen Blixen ha arrecato all’immagine dell’Africa agli occhi degli stranieri sono incalcolabili”, per poi aggiungere:

“Il nome Karen sulla mappa della nostra capitale ci rende più ridicoli ogni giorno che passa. Se una donna keniana fosse vissuta in Danimarca e avesse offeso i danesi nello stesso modo elaborato e insensibile in cui Blixen offese noi, Copenaghen non le avrebbe intitolato uno dei più importanti sobborghi”.

Se queste fossero esagerazioni oppure no, stabilirlo non spettava ai bianchi 


Estratto:
Montagne e mal d’africa
(A Karen Blixen)

Ritrovammo Mike al rifugio, in preda alla cefalea. Gli diedi dell’ibuprofene e in poco tempo si riprese. Una rapida colazione, e fummo pronti a scendere lungo la Naro Moru Route. 
Alle 8:30, due ore dopo essere stati in vetta, partimmo tutti insieme dall’Austrian Hut e scendemmo il pendio per infilarci nella Teleki Valley. Il pendio era ripido, un declivio di almeno trenta gradi e sdrucciolevole sotto i piedi, coperto di terra secca, sassi e sassolini. Scivolai una prima volta e sbattei le chiappe per terra. Mi rialzai e ripresi a scendere. Pochi metri più sotto, scivolai per la seconda volta e per un pelo evitai di ruzzolare giù. Scivolai ancora una volta, e un’altra ancora. Non riuscivo a usare i bastoncini per bilanciare il peso. Nonostante i buoni consigli di Paul e degli altri mi investì un attacco di panico. Paul mi afferrò una mano, sorrise e disse: – Let’s go. If we fall, we’ll fall together. – E così superai il pendio. 
Seguirono otto ore di marcia all’ingiù lungo la Teleki Valley e attraverso il «Vertical Bog», l’acquitrino verticale, con gli scarponi affondati nella torba, passando tra muraglie di eriche giganti, fino a ritrovare la foresta equatoriale. A quel punto ero ormai sfiancato e di nuovo rimasi indietro. Mi sorreggevo aggrappandomi ai rami e alle barbe verdechiaro delle hagenie. Mike rallentava per starmi accanto. In quel momento il mio telefono ritrovò la rete e, ping!, ecco l’SMS di un’amica giornalista. Mi chiedeva di scrivere un articolo per «Il Manifesto» sulle dimissioni del sindaco di Bologna, tale Delbono, da tempo impegolato in uno scandaletto sessuo-politico. 
Delbono. Mi ero completamente scordato che esistesse, e di lì a poco me ne sarei scordato di nuovo. Non rammento se e cosa risposi al messaggio. 
L’ultimo tratto lo coprimmo su uno stradello di cemento. Dopo tre giorni su terreni irregolari, quel cambio di passo mi spezzò il ritmo e mi stracciò le gambe. Alla fine arrivammo al rifugio della stazione meteo. Il mio umore era all’insegna del chi-me-l’ha-fatto-fare, ma in quel momento mi girai e, in cima al lungo sentiero percorso, vidi la montagna, il massiccio già lontano, azzurro, levitante sul verde pregno e fradicio degli alberi. Mi resi conto che solo dieci ore prima ero stato lassù, proprio in cima, e il mio umore trasmutò, e quelle dieci ore mi sembrarono niente. Niente. 
Fin da neonati ci hanno presi in braccio e sollevati, e quando ci tiravano su tornavamo a stare bene. Là in basso, nella culla, piangevamo e invocavamo la mamma, invocavamo qualcuno, qualcosa, stare «giù» era sentirsi soli, era essere minorati, manchevoli, nel bisogno e nel dolore. Essere sollevati, quello sì era bello, innalzarsi, andare «su» cambiava tutto. Poi dalla posizione supina siamo passati a quella seduta, ed è stato un progresso, un andare «più su», noi lo avvertivamo, ne eravamo consci perché ce lo facevano capire quelli intorno a noi. A seguire, da seduti, ci hanno insegnato a stare eretti, e ci applaudivano e premiavano – con sorrisi, baci e complimenti – se riuscivamo a non cadere, e di nuovo era un elevarsi, un andare più in alto. «In alto» era bene, «su» era meglio di «giù», cadere era il fallimento. Poi ci hanno insegnato a camminare, applaudendo i nostri primi passi. Camminare era un ulteriore progresso, molto meglio che andare carponi. Camminare, correre, saltare, tutto questo era bello e buono. Strisciare, invece, era brutto e cattivo. Strisciano i vermi, strisciano le vipere, strisciano le code dei topi. Da ciò che striscia, che si muove senza elevarsi, non può che arrivare il pericolo, e il pericolo è una forza che vuole ritrascinarci giù. «Verso su» è bene, «verso giù» è male, questa è la metafora primaria che – letteralmente – abbiamo in corpo e usiamo ogni giorno: «Come sei caduto in basso», «non ti credevo capace di simili bassezze», «il livello è proprio basso», «ho il morale sotto le scarpe», «fascisti, carogne, tornate nelle fogne», «è uno spirito elevato», «Oggi mi sento in cima al mondo», «Bisogna alzare il tenore di vita», «alta qualità», «alta fedeltà», «alta tecnologia», «alta moda», «bassi istinti»…
«Caduto» significa morto; il premio è nei cieli, l’eterno castigo è sottoterra; il potere è «sopra» di noi, e infatti siamo «sottomessi»; una cosa noiosa o insulsa è definita «piatta», ovvero «senza picchi», senza movimenti «verso su». E poi, dall’alto si vedono più cose, anzi, si vede tutto (pan-orama, visione di tutto), e si vede lontano. Col ventre a terra si vede poco o niente; quindi «verso su» è molteplicità, controllo della situazione, completezza e compimento, apertura al futuro; «restare giù» è pochezza, angustia, mancanza, fallimento, chiusura. 
Senza questa cornice metaforica a influenzare i nostri pensieri e discorsi, l’alpinismo non esisterebbe. L’alpinismo è l’apoteosi del corpo che si muove «verso su», quindi verso il meglio. Non c’è alpinista che, giunto sulla vetta, non si senta migliore di quando stava «laggiù», sul piano, nel piattume dell’esistenza di ogni giorno. E se in montagna si cade, e si muore, si è comunque caduti in alto, più in alto del piano.
Tornato al POW Camp 354 e rinchiuso nella cella di rigore, Benuzzi aveva scritto, osservandosi da fuori grazie alla seconda persona plurale:
Siete sì tornati tra loro, ma non siete più come loro. Condividete ansie e speranze, ma avete una risorsa, una forza in più. Perché insieme alla fiducia in voi stessi, avete ritrovato lassù, nel regno della bellezza e del silenzio dei cinquemila, quella facoltà di meravigliarsi, quell’umiltà, quella freschezza di sentimenti, quel rispetto augusto che è fonte di tutto ciò che è nobile nell’uomo.
«Lassù» era il regno della bellezza e della capacità di meravigliarsi. Ma mi chiedevo: di cosa esattamente ci si meraviglia, in montagna? Robert MacFarlane ha scritto:
La montagna mina in noi la compiaciuta convinzione – in cui è tanto facile cadere – che il mondo sia fatto dall’uomo per l’uomo. La maggior parte di noi abita per gran parte del tempo mondi strutturati, pensati, controllati dall’uomo. Ci si dimentica che esistono ambienti che non rispondono allo scatto di una leva e al movimento di una manopola, che hanno ritmi propri e piani di esistenza diversi. La montagna impedisce questa amnesia. Esprimendo forze più grandi di quelle che possiamo invocare, ponendoci di fronte a tempi la cui ampiezza non riusciamo neppure a concepire, essa confuta l’eccessiva fiducia nel «fatto dell’uomo».
Ci si meraviglia, allora, scoprendo che un’altra esperienza del tempo è possibile, e dunque un’altra vita è vivibile, o almeno lo sarebbe. C’è una pulsione utopica in questo muoversi «verso su» alla ricerca di uno sguardo sul molteplice e di tempo più ampio e fluido, meno scandito e frenetico di quello che viviamo in città.
Il fatto che tale pulsione venga incanalata dal mercato e sfruttata per venderci sempre nuovi prodotti – abbigliamento ogni volta più «tecnico», attrezzatura sempre più fashionable – o servizi – escursioni «impacchettate», aumento delle comodità e del superfluo, fino all’abominio dell’eliski – non la rende meno reale, anzi: se non fosse reale, non sarebbe alla base di un’industria così fiorente.
Nel racconto «Ferro», incluso nella raccolta Il sistema periodico, Primo Levi racconta delle sue esperienze alpinistiche negli anni Trenta («la notte dell’Europa»), quando scalava le Alpi occidentali insieme all’amico Sandro Dalmastro, che sarebbe diventato comandante partigiano nelle brigate Giustizia e Libertà. Di Dalmastro scrive: «Sandro non amava gli orologi: ne sentiva il tacito continuo ammonimento come un’intrusione arbitaria.» Per lui, in montagna «era sempre la stessa ora». Andare in montagna era allora un’azione affine al sabotaggio, come gettare uno zoccolo negli ingranaggi, inceppare la catena di montaggio della vita quotidiana, per sospendere il tempo e riprendere fiato.
Questo spiega perché molti alpinisti ritengano inaccettabili degenerazioni l’approccio sportivo e cronometrico alla montagna, l’attenzione per i record, l’eccessivo ricorso alla tecnica per affrettare un’ascensione.
La spinta utopica di Benuzzi e compagni era evidente: evadere per andare «verso su» significava sfuggire al tedio e all’abbrutimento della prigionia, a un tempo divenuto senza senso, trascorso a far nulla e al tempo stesso scandito da appelli, contrappelli, ore pasti, coprifuochi e altri obblighi della burocrazia concentrazionaria.
Ma il quadro era più complicato di così: spesso l’utopia di un uomo era l’incubo di un altro – o di molti altri – e la condicio sine qua non del suo muoversi «verso su» era che altri rimanessero «giù», «sotto», «in basso». L’alpinismo era nato nel privilegio e la sua storia era fatta anche di esclusione e discriminazione. A lungo le sue manifestazioni erano coincise con quelle del potere coloniale, come nel caso della spedizione Mackinder.
Durante le notti semi-insonni sulla montagna, ogni tanto mi era tornata in mente la femmina di camaleonte vista alla casa-museo di Karen Blixen. Pensavo a quel laccetto bianco che le impediva di diventare parte dell’ambiente, di fuggire cambiando colore. Come mai quell’immagine mi era rimasta tanto impressa?
Nelle narrazioni incentrate sul «mal d’Africa», sulla nostalgia coloniale o neocoloniale, c’era una pulsione utopica molto vicina a quella dei racconti di alpinismo. Il continente nero aveva una connotazione simile a quella della montagna: in Africa l’europeo viveva un tempo più fluido, più disteso, e spesso il ricordo struggente era associato all’altura, alla montagna, al «verso su», alla sconfinatezza del cielo, allo sguardo che abbracciava un panorama nitido e puro. In un celebre passaggio de La mia Africa Karen Blixen aveva scritto:
Il tratto più caratteristico del paesaggio, e della vita lassù, era l’aria. Ricordando un periodo passato sugli altipiani d’Africa, si ha la sensazione sconcertante di essere vissuti nell’aria. Il cielo era di solito celeste pallido o violetto, solcato da nubi maestose, senza peso, in continuo mutamento, erte come torri; ma aveva in sé un tale vigore d’azzurro da colorare anche i boschi, e le colline accanto, di una tinta fresca e profonda.
Nel pieno del giorno l’aria, in alto, era viva come una fiamma: scintillava, ondeggiava e splendeva come acqua che scorre, specchiando e raddoppiando tutti gli oggetti, creando grandi miraggi. Lassù si respirava bene, si sorbiva coraggio di vita e leggerezza di cuore. Ci si svegliava, la mattina sugli altipiani, e si pensava: «Eccomi, questo è il mio posto.»
Solo che il «suo» posto erano tremila ettari di terra rubati ai Gikuyu, di cui trecento coltivati a caffè. Certo, Karen era magnanima coi suoi fittavoli, curava di persona i malati, aveva aperto una scuola per bambini gikuyu. Meglio essere squatter sul «suo» terreno che su quelli di altri. Ma i suoi scritti sull’Africa erano permeati di senso di superiorità: anche se ne deplorava i risvolti più «antipatici», Blixen non metteva mai in discussione la gerarchia presuntamente «naturale» tra bianchi e neri, l’ordine sociale e razziale che giustificava il «peccato originale» del furto di terra, quello che nessuna condotta filantropica avrebbe mai potuto compensare. 
Nella prefazione a Facing Mount Kenya, Jomo Kenyatta si era scagliato contro quegli «amici professionisti dell’africano» pronti a mantenere la loro amicizia per l’eternità, come un sacro dovere, a condizione che l’africano continui a far la parte del selvaggio ignorante, affinché loro possano monopolizzare il compito di interpretare la sua mente e parlare per lui. Per gente così, un africano che scriva un saggio come questo sta violando il loro territorio. E’ un coniglio divenuto bracconiere.
Spessissimo Blixen paragonava gli indigeni ad animali, selvaggi o domestici che fossero. Il villaggio indigeno sembrava «un grappolo di tane da talpa»; i bambini gikuyu «se si cerca di rompere il loro guscio fanno come le formiche quando si infila uno stecco nel formicaio»; Kamante, il cuoco ragazzino, era bravo a badare ai cani perché «riusciva a identificarsi con essi», tanto che egli stesso serviva a tavola «come certi cani civilizzati, abituati alla compagnia dell’uomo, depongono dinanzi all’ospite un osso come un gran regalo». Più volte la baronessa paragonava il suo amore per gli indigeni a quello per gli animali, affermava che i rapporti con gli indigeni erano più facili se si conosceva il comportamento delle bestie selvagge etc. Forse, per lei, anche insegnare a leggere e scrivere era come ammaestrare un animale per poter dire agli amici: – Visto quant’è intelligente? Bravo, Fufi!
Del resto, anche imparando a leggere e scrivere, più in là di tanto i Gikuyu non sarebbero potuti andare. In Ombre sull’erba, pubblicato nel 1960 mentre la decolonizzazione era già in corso, Blixen aveva scritto: 
I Kikuyu, i Kawirondo e i Wakambo, le genti che lavoravano con me alla fattoria, nella prima infanzia erano molto più avantidei bambini bianchi della stessa età, ma all’improvviso si fermavano a uno stadio corrispondente a quello di un bambino europeo di nove anni. I somali erano andati più in là e avevano la mentalità che ha la nostra razza tra i 13 e i 17 anni.
Dunque, anche la baronessa Blixen aveva un laccetto bianco intorno alla zampa. Una specie di memento, come un nodo al fazzoletto. Grazie a esso poteva parlare coi Gikuyu, lavorare coi Gikuyu, curare i Gikuyu, ricordandosi di non superare mai la linea del colore, di non confondere beneficenza e uguaglianza, di non mettere mai in crisi la gerarchia.
Quando Karen era arrivata in Kenya, nel mondo dal quale proveniva i valori aristocratici erano in crisi da un pezzo, ma in Africa si poteva ancora essere baronesse, e non solo di nome, ma di fatto. Il “mal d’Africa” di Blixen era nostalgia di un’Arcadia dove si era superiori al proprio prossimo senza inceppi nè sensi di colpa, permettendosi anche il lusso di essere “buoni”con gli inferiori. Era nostalgia per lo status di parasite in paradise.
Da tempo gli scrittori ed intellettuali keniani avevano iniziato a decostruire l’immaginario di Blixen. Ngugi wa Thiong’o aveva definito “La mia Africa” “uno dei più pericolosi libri sull’Africa mai scritti”, proprio perchè era un bel libro, pieno di immagini e di sogni. Proprio perchè Blixen era stata una brava scrittrice. Ngugi era andato a dirlo a Copenaghen, nel tempio della santa, in una conferenza che aveva fatto scalpore. E Dominic Odipo aveva scritto: “I danni che Karen Blixen ha arrecato all’immagine dell’Africa agli occhi degli stranieri sono incalcolabili”, per poi aggiungere:
“Il nome Karen sulla mappa della nostra capitale ci rende più ridicoli ogni giorno che passa. Se una donna keniana fosse vissuta in Danimarca e avesse offeso i danesi nello stesso modo elaborato e insensibile in cui Blixen offese noi, Copenaghen non le avrebbe intitolato uno dei più importanti sobborghi”. 
Se queste fossero esagerazioni oppure no, nessun bianco poteva stabilirlo.

Wu Ming1 e Roberto Santachiara –  Da Point Lenana